In due anni Obama è passato da un successo straordinario a un tonfo senza precedenti. Eppure nulla è cambiato in questi 24 mesi che giustifichino un tale disamoramento dell’elettorato: molte promesse erano rimaste tali anche nel precedente quadriennio, molte speranze erano già state bruciate e l’emergere di un Obama abilissimo parlatore, ma mediocrissimo politico, sempre esitante e spesso confuso era già stato sperimentato. Certamente ci sono molte cause concrete e allo stesso tempo accidentali in tutto questo, molti errori – palesemente quello di simulare una rinascita economica in presenza di uno straordinario crollo di salari, retribuzioni e qualità del lavoro – ma credo che la causa fondamentale stia in altro e cioè nell’emergere sempre più visibile del declino americano.
Da una parte, nonostante l’offerta di una seconda chance a Obama, dopo un lungo periodo di incubazione è entrato in crisi conclamata il sogno americano, ossia quello di un benessere crescente per tutti, sempre che abbiano la volontà di fare fortuna. In pochi decenni il Paese delle opportunità si è trasformato nel Paese con la minor mobilità sociale almeno all’interno dell’Ocse e nonostante le tonnellate di propaganda subliminale proposta attraverso media, fiction e film riguardo all’inseguire i sogni, proprio il fallimento dell’uomo che avrebbe dovuto rappresentare una nuova stagione, ha messo in luce che lo straordinario aumento delle disuguaglianze fa parte del sistema e non è una sorta di temporanea malattia. Da qui la poca voglia di andare alle urne proprio da parte delle fasce di recente immigrazione.
Dall’altra proprio questa sensazione di decadenza porta i repubblicani verso una radicalizazione incoerente di quel sogno, insinuando che ogni apertura sociale sia la radice del declino. E preferendo piuttosto appoggiare qualche istanza di diritti civili come compensazione per un sistema di potere ormai ingessato ( il parallelo con l’Italia in questo non è affatto improprio trattandosi di territorio coloniale da ormai 70 anni). E proponendo in politica estera un aumento e consolidamento dello strumento militare, non rendendosi conto di non avere più la supremazia totale degli ultimi trent’anni, che lo spostamento del lavoro materiale e dei relativi saperi in Asia sta cambiando rapidamente i rapporti di forza. che rinascono imperi non dichiarati e altri se ne stanno formando.
Sembra quasi che si stia verificando quanto visto e anticipato nei decenni scorsi da Braudel, Hopkins, Wallerstein, Frank e soprattutto Giovanni Arrighi in quel saggio intitolato “Il lungo XX secolo”, che individuano delle costanti nelle varie fasi del capitalismo visto come logica di accumulazione: tutte le volte che la potenza egemone di un determinato assetto storico, abbandona il campo della produzione materiale per la speculazione finanziaria, quel sistema inizia a tramontare. E’ successo a Genova e Venezia tra medioevo e rinascimento, è Accaduto all’Olanda del 1600, alla Gran Bretagna del 1700 e 1800 e ora sta accadendo agli Usa.
Di certo gli elettori americani non sono avidi lettori di sociologia economica, sebbene Arrighi sia più conosciuto e stimato in Usa che non in Italia, tuttavia non c’è bisogno di letture approfondite perché l’uomo della strada avverta in sottofondo che qualcosa non funziona, che il sogno sta venendo meno. Il problema è che non ha gli strumenti e tanto meno gli input informativi per poter uscire dal recinto culturale nel quale si è accomodato negli anni delle vacche grasse e di cui oggi è prigioniero; si trova a risolvere il problema dentro il medesimo schema che lo ha creato e che non prevede altri modi di vedere le cose. Paradossalmente proprio il fallimento di Obama, subito messo fuori gioco dalle logiche imperiali e di profitto, lo porta a tornare indietro, a ritrovare nel passato, nel vecchio il retino con cui riafferrare la farfalla del sogno. Mutatis mutandis è ciò che accade anche in Europa, ormai appendice funzionale degli Usa che non è mai ad essere davvero autonoma, se non nel periodo della guerra fredda.
Purtroppo per noi le caratteristiche del potere globale statunitense, perduta l’egemonia culturale in senso gramsciano, poggiano sull’architrave della forza militare che sta divenendo sempre più importante sia per stringere a sé i territori dell’impero, sia per mettere bastoni alle ruote dei rivali che già sono perfettamente visibili. Per cui questo reflusso dalla stagione obamiana, ritenuta fallimentare, potrebbero risolversi nel tentativo di restaurazione manu militari del potere globale. E questo è visibilissimo in Hilary Clinton, futuro candidato democratico alla Casa Bianca, nella quale è difficile scorgere qualcosa di diverso dai falchi repubblicani e persino dai theapartisti. E temo che noi per primi – implicati dei medesimi meccanismi, sia pure localizzati -pagheremo le conseguenze di questo colpo di coda.