Parlare bene della scrittura di David Foster Wallace e di un suo libro in particolare, probabilmente è anche diventata una moda.
Così come è difficile trovare qualcuno a cui non piacciano personaggi come Benigni oppure Vasco (anche se qui è già più facile), altrettanto difficile è trovare una forte lettore che non apprezzi DFW.
Le ragioni possono essere tante, alcune personali, altre più allargate, fino ad arrivare ai commenti degli altri scrittori.
Dal mio punto di vista devo dire che non mi fido più di quanto scritto o detto dal resto del mondo letterario; mi sembra di notare una deriva autoreferenziale o perlomeno del vivi e lascia vivere.
Pochi che parlano male di uno scritto non loro e ancora meno coloro i quali sono disposti ad accettare critiche; non parliano poi dei falsi modesti: pare che la stragrande maggioranza scriva quasi per caso.
Fatto questo piccolo inciso e tornando al libro in questione, questo Oblio rappresenta un ottimo esempio dello stile di Wallace.
Basta leggere, mi raccomando però con la giusta attenzione, le prime 20-25 pagine del primo racconto del libro per avere un’idea abbastanza precisa del tipo di scrittura.
Una scrittura piena di divagazioni che alla fine, non si sa come, diventano sempre parte integrante della storia.
Aanche in questa parte iniziale le curiosità non mancano: dalla passione per la statistica e la psicologia del buon Schmidt, all’arrampicata dell’”uomo ragno” di turno sulla parete in vetro del palazzo di fronte.
Due semplici esempi che funzionano a latere di un racconto per il quale non sono indispensabili.
Non è da tutti scrivere cose apparentemente inutili che alla fine risultano necessarie.
Oltre a tutto il resto c’è quasi in tutti gli scritti di Wallace quel senso di denuncia misto a rassegnazione per una società e un modo di vivere in generale dove il “rococò dorato” la fa da padrone sui contenuti in maniera sempre più irreversibile.
E’ però il secondo racconto quello che più sorprende e che rivela un Wallace a me finora sconosciuto.
Un racconto nel quale lo scrittore, nonostante il suo modo di scrivere complesso e pieno di divagazioni con lunghe descrizioni di particolari spesso isolati dalla vicenda principale, rivela una inquietante capacità di trasmettere quella tensione che accende il desiderio del lettore mettendolo nella condizione di voler sapere il prima possibile come finisce la storia.
Un Wallace diverso da quello trovato nelle altre mie lettura (La scopa del sistema, Brevi interviste…, Una cosa divertente…, Tennis trigonimetria…., La ragazza dai capelli strani e Una cosa divertente che non farò mai più) e forse per questo ancor più soddisfacente.
“Non una parola di più.”
In questo modo termina “Caro vecchio neon” il racconto più strano ed intenso del libro, nel quale cercare segnali e motivazioni per quello che l’autore farà qualche anno dopo verrebbe talmente automatico da risultare alquanto sospetto e scontato, quindi come dice lo stesso Wallace, non una parola di più.
Tempo di lettura: 14h 50m