Si inizia con questa musica.
Per ricordarsi l’importanza che aveva la melodia, quando le cose funzionavano; quando c’era ancora qualcuno. Gli altri. Milioni di altri.
L’apocalisse è bella quando arriva a terminare una civiltà.
Ecco, la precedente è un’affermazione nostalgica e folle. Ed entrambi gli aggettivi sono fuori posto, paradossali. Non si può provare nostalgia per qualcosa che non è mai avvenuto. Eppure, quel tema musicale conosciutissimo, A Summer Place di Max Steiner, fa il suo lavoro e suscita sentimenti e ricordi, anche in quelli che hanno avuto una vita agra.
Poi osservi Charlton Heston, il Robert Neville di turno, che guida in una Los Angeles deserta, svuotata davvero, all’alba, perché all’epoca i computer non c’erano ancora e le automobili e le persone le dovevi far sparire, oppure aspettare che scomparissero loro.
Era il 1971. E l’apocalisse, coi suoi figli vampiri, mostri o zombie che fossero, era bellissima. Perché il mondo era nella guerra fredda, sull’orlo del nucleare e, ancora, della catastrofe batteriologica. Insomma, c’era paura, terrore di sparire, tutti quanti, di colpo. Ma per i superstiti, quel che sarebbe rimasto erano sì, vuote cattedrali di cemento armato e lingue d’asfalto disseminate di rottami metallici dai colori sgargianti, ma anche, quel che più contava, un luna park sconfinato. A disposizione, tutta la ricchezza e la scienza di migliaia di anni di evoluzione. E soprattutto, la musica. Migliaia di brani composti per allietare infinite giornate tutte uguali.
Unico neo, un po’ di solitudine. Robert Neville, lo sapete, è un uomo solo, in un mondo di mostri.
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Ma non manca l’ironia, quella no. Quella che lo porta al cinema, sempre lo stesso, sempre a vedere quel film, Woodstock, che ormai ha imparato a memoria. È il più grande successo di tutti i tempi, dato che è in proiezione da più di sei anni.
Neville parla anche da solo, con commessi e vigili inesistenti e quasi sente calore umano quando, per sbaglio, per un passo falso che ha commesso, è finito tra le braccia di un manichino femminile e lui si scopre a provare un certo trasporto.
La storia è arcinota. D’altronde, Occhi bianchi sul Pianeta Terra (The Omega Man) è tratto da I am Legend di Richard Matheson; pur essendo un altro film, tanti sono i punti di divergenza. Un altro film, altro ancora da quello di Ragona; figlio di una certa volontà, quella che, è evidente, portava e porta ancora oggi la paura di affidare l’intero intreccio a un solo attore; nonostante nel ruolo ci fosse Heston, che non era l’ultimo arrivato.
Il problema di I am Legend è che c’è solo Robert Neville per tre quarti di romanzo, e quindi, in teoria, anche per tre quarti di film. Neville e i suoi deliri, i suoi ricordi, la sua foia, e gli altri, i tizi con gli occhi bianchi, che assediano la sua villetta; qui un ultimo piano confortevole.
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Ci sarebbe spazio anche per un cane. E poi per Ruth, ma è poca cosa. Niente cane, quindi, e una Ruth diversa. A Heston si associano, oltre a quelli con gli occhi bianchi, gli infetti, stavolta subito organizzati in una specie di società, un altro gruppo di superstiti.
La storia è ombreggiata da motivi interessanti. Gli infetti, capeggiati da quello che era l’anchorman del più famoso canale televisivo, non hanno alcuna intenzione di ritornare al vecchio mondo, fatto di guerre, un altrettanto interessante conflitto russo-cinese, e di micidiali armi di distruzione. Neville è l’ultimo rappresentante del vecchio stato di cose, un nemico mortale. Ma non la leggenda che siamo abituati a considerare.
Il lirismo, in questa versione per la regia di Boris Sagal è filtrato, dapprima dietro le spalle larghe di Heston, che si diverte a fare shopping in negozi vuoti, a cambiare auto e a setacciare alberghi fatiscenti, e poi sale in cattedra per aiutare il gruppo dei superstiti ben consapevole che lui è la chiave di tutto, anche del futuro, la chance per ricominciare.
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Non che sia un brutto film. Tutt’altro. Ma come dicevo, Robert Neville, quello vero, di carta, ha uno spessore che mette paura. Non ci sarà mai attore abbastanza bravo o regista abbastanza coraggioso da riuscire a ritrarlo nella sua unicità di uomo mediocre, forte e vendicativo; uomo bisognoso di sfogarsi, desideroso di possedere le donne malate che danzano in pose oscene nel giardino davanti alla sua casa, alcolizzato e pigro, che si costringe a studiare, a migliorare il suo stato, a non lasciarsi vivere per tentare, in uno dei rari momenti di attività, di risolvere il problema.
Gesto stupido, ovvio. Forse anche inutile, ma necessario per non impazzire.
Questo Neville, quello di Heston, ci regala squarci di desolazione sublimi, col sole basso, che fa le ombre lunghe. Molto efficace la costruzione dei set degli interni, con locali a soqquadro, polverosi soprattutto, come si addice a uno stato d’abbandono totale che dura almeno da quattro lunghi anni e, ancora, pieni di cadaveri ormai rinsecchiti, in pose naturali, come la morte li ha colti, mentre erano intenti a guidare l’auto, a dormire, a provarsi un nuovo costume da bagno.
Dal punto di vista della ricostruzione scenica, l’impianto regge benissimo; il resto, la sopravvivenza, lo scopo dell’esistere presente e futuro è sufficiente, senza brillare mai. Come la città silenziosa che è divenuta Los Angeles, percorsa dalla Famiglia, il gruppo degli infetti, che con le torce in mano e i loro cappucci rituali, tanto influenzerà le panoramiche notturne di un’altra città abbandonata al suo destino, la New York del 1997.
Ma bastano quelle poche inquadrature e un finale che, all’epoca, solo i grandi non esitavano a dispensare: ed ecco servito lo spettacolo. Non fosse bastata la poesia dei primissimi minuti.
Ma il libro è ancora lì che attende. Nessuno c’è ancora riuscito, a mostrarlo per ciò che è.
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