Magazine Ciclismo

Occhi chiusi per il vento che non c’è.

Creato il 30 aprile 2014 da Emialzosuipedali @MiriamTerruzzi

Certi amori cominciano così, d’improvviso. Il via lo dà l’anima prima che la testa. L’amore per le cronometro è partito da dentro, un sentimento verso la bellezza, il vento, la velocità che mi ha preso come quell’edera dei giardini antichi che non controlli più. La crono è solitudine. Dentro e fuori. Anche il pubblico, i rumori, contano poco: è una questione tra la sincronia delle gambe e il battito del cuore. Ma niente poesia. Perché la solitudine è cruda come un crampo allo stomaco e allo stesso tempo fa vedere a te stesso chi sei realmente. Cosa puoi fare, a comando della tua umanità.

Mentre giravo tra i pullman prima del cronoprologo del Tour de Romandie sono rimasta colpita da Silvan Dillier sui rulli: divisa rossonera della BMC, testa china, gambe a tutta che mulinavano nel nulla. Riscaldamento prima della partenza, come da consuetudine. Non so cosa mi ha spinto a restare, ad osservarlo più degli altri. Forse il fatto che fosse lì da solo, senza compagni, senza spettatori. Forse il suo profilo immobile, con gli occhi bassi e le gocce di sudore che scendevano come pioggia sulle braccia appoggiate alle appendici della bicicletta. Non avevo mai visto nessuno fare i rulli così. Lo guardo meglio: non ha le cuffie che lo aiutano ad estraniarsi dal mondo esterno con la musica, eppure sembra non far caso a quello che succede intorno a lui. Il profilo immobile, quei piccoli cilindri di cotone nel naso oramai zuppi, lo sguardo impassibile di chi è da un’altra parte. Poi, senza smettere di pedalare, chiude gli occhi, abbassa ancora un po’ la testa. Così, con la bocca semiaperta dallo sforzo, sembra entrare definitivamente nella sua dimensione. Le gambe continuano a spingere sui pedali e sono l’unica cosa che sembra sentire in quel momento. Quell’istante che è un misto tra concentrazione ed estraniamento, ha la forza di un uragano. Anche se fuori, fuori da quel corpo, tutto è rimasto com’era.

A cosa pensi Silvan, in quel momento? Non lo so e forse non riesco neanche a immaginarlo. Forse a tante cose, forse a niente. Eppure sento che in quegli occhi chiusi, in quella espressione lucida di fatica c’è la stessa intensità delle nostre solitudini, il nostro estraniarci da tutto per cercare di sentire un vento che non c’è.  Quante volte ce lo immaginiamo quel vento. Costruiamo nella testa le sensazioni che ci servono per andare avanti. E un po’ la fantasia ci salva, se stiamo ad occhi chiusi.
A cosa pensi Silvan mentre immagini la strada, l’ammiraglia che urla nell’altoparlante per incitarti, il rumore sordo della ruota lenticolare? Com’è cercare di sentire il vento su quella bicicletta immobile, a occhi chiusi mentre il sudore cola come lacrime? Forse è come quando siamo soli, anche in mezzo a tanta gente, e pensiamo solo a quello che ci fa venire la pelle d’oca e l’anima capisce subito che è un momento di testa e di cuore assieme. E’ da pelle d’oca il vento in cronometro, lo senti addosso, senti la velocità sui muscoli che vorrebbero vincerla. Vincere il vento e il tempo su una bicicletta, essere un tutt’uno con lei e con sé stessi, una freccia compatta per quei chilometri che bisogna fare a tutta, dalla pedana alla linea d’arrivo. Secondi che scorrono assieme al mondo. La strada, la gente, le case, il muretto di una curva, strisce veloci inghiottite dalla velocità, che non fanno in tempo a materializzarsi nella testa che è lo stesso altrove. Chino sulle appendici, solo la fatica ha la voce alta, il resto sussurra.
Tutto questo si può immaginare solo ad occhi chiusi e con la fatica nel sangue. E’ un po’ come quando siamo al buio e proviamo ad immaginare la luce. E’ la testa, è l’anima con la sua vita parallela.
Come spesso succede non so spiegare a parole l’imperfetta bellezza di un attimo che sento profondamente sopra tutte le altre cose che succedono. Però so che la prossima volta che guarderò un ragazzo sui rulli penserò all’espressione di Silvan Dillier, al suo mulinare nel nulla. Penserò a quante volte lo facciamo noi. A quante volte costruiamo un momento in attesa di viverlo, con la speranza che sentendolo prima nella testa, nei muscoli potremo essere più pronti quando sarà realtà. A quante volte ci siamo isolati dal resto del mondo per ritrovare noi stessi e riascoltare le cose importanti. A quante volte teniamo gli occhi chiusi per sentire quel vento che ancora non c’è.

silvan



Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :