Occhi di Cielo. Solo per amore
di Iannozzi Giuseppe aka King Lear
Eri una bellezza inaudita – una tristezza inascoltata, tutte le onde del mare a frangersi sulla nuda battigia. Eri un’impossibile sposa là dove si perde l’orizzonte, eri il volo d’un solitario bianco gabbiano incontro al sole già quasi del tutto nel crepuscolo affogato. Ma Dio lo sa se t’ho amata quando nascondevi il volto in lagrime nel cavo del mio pulsante petto: rimanevi muta ad ascoltarmi il cuore, mentre posavo una carezza sui tuoi capelli perdendomi nella loro trama di seta. Eri il mio violino, quello che non sapevo suonare – quello che tentavo d’amare come un uomo che da sempre sa che per sempre nella solitudine costretto resterà. Quanti anni da allora e quante abortite capriole fra le insoddisfatte vuote lenzuola; eppure non c’è dolore, se non quello che s’è fatto roccia nel mio cuore di oggi.
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Balla per me, balla per te, Amore, fino alla fine di questo amaro tempo, fino all’inizio del miele nel dolore. Che fai oggi? Balli ancora, e con chi? Ti è stato facile dimenticare che ero saliva mescolata alla tua? Io spengo la cinquantesima candelina sedendo sotto l’inutile pesantezza d’una lampadina di appena cinquanta candele… Io frugo nelle povere tasche per trovare la tua foto ingiallita, perché altro non m’è rimasto. Un clown mi sorride, mi saluta con la mano, m’invita a prendere il suo cerone pur sapendo che mai lo farò. Ma, Amore ballerino, Amore canterino, Amore che non ti so più dove, ho sempre condiviso i miei ciechi occhi nei tuoi cantando con un filo di voce just like a rolling stone.
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Babilonia, fu un attacco al suicidio sventato. Ed è vero pure il contrario, qualsiasi cosa possa significare. Eravamo in ospedale, è lì che lo conoscemmo quel vecchietto tanto buono ma paralitico. Era Occhi di Cielo. Ce lo disse sua moglie che l’aveva preso una paralisi: non riusciva a muovere un solo muscolo, ma gli occhi erano svegli, erano azzurro cielo. Il suo volto – quello d’un umile, d’un contadino – era bello, me lo facesti notare ed io ti diedi pienamente ragione: ottant’anni portati con dignità, pochi capelli bianchi, mascella volitiva ma dolce, bocca carnosa ma non volgare, e gli occhi più belli che avessimo mai visto. Non riusciva a parlare, non una parola dalla sua ugola: solo gl’era possibile guardarci dal suo cielo negli occhi. Ad un certo punto la moglie ci disse della vita di quell’uomo costretto in un letto d’ospedale: ci raccontò che fu partigiano, che soffrì il freddo, che restò a combattere il nemico rischiando ogni giorno la pelle ma sempre pensando a lei. Ed ancora ci disse che lui era più vecchio di lei: quando s’erano conosciuti lui era già un uomo fatto, lei soltanto una ragazzina; però lo amava e lo aspettava, aspettava che tornasse tutto d’un pezzo perché le aveva fatto una promessa. E quella promessa la mantenne: e tornò, provato come un uomo che ha visto la morte e la sua ingiustizia. E tornò senza aver perso gli occhi di cielo. E si sposarono. Tutto questo ci raccontò, poi si sciolse in lagrime ed uscì dalla stanza. Un colpo di tosse: il cielo tossiva, stava male. Mi avvicinai a lui, gli aggiustai il cuscino, tirai su il suo corpo quasi volessi comprenderlo nel mio, lo aggiustai nel suo letto di dolore e d’amore. E lui aprì la bocca in un miracolo per un grazie sussurrato: gli costò molta fatica quel grazie. Entrambi riconoscemmo che non sarebbe stato in grado di dire un’altra parola per tutto il resto della poca vita che ancora gli rimaneva. Quell’ultimo grazie; e tu piangesti, e tu fuggisti. Entrammo in quella stanza cercando qualcun altro, e fu la cosa più bella e triste della nostra vita.
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“Spogliati. O inventami in una soap-opera tremendamente malata.”
“Guardami, guardami bene, sono qui.”
“Ti amo prima di saperti accanto a me.”
“Così romantico sei.”
“Non posso farne a meno… di te.”
“Mi venderai l’anima?”
“Prenderò il tuo corpo d’anima, perché qualcuno sta bussando alle porte del paradiso, ma io sono solo capace di fischiettare just like a rolling stone.”
Poi, in un giorno di sole, mi dicesti con la bocca a cuore che se in futuro una puttana, l’avrei dovuta trattare proprio come una puttana e non secondo la mia immaginazione.
Ti ho cercata. Ma non è vero. Non ti ho cercata. Ma non è vero. Però ho trovato sulla mia strada tante donne e ho seguito il tuo avvertimento. E’ stato il tuo ultimo dono d’amore la Rivelazione.
Che fai oggi? Balli ancora, e dove? sulla strada? Ti è stato facile dimenticare che ero un’anima persa e mescolata alla tua?
* * *
S’è fulminata la lampadina proprio nel momento in cui spegnevo le mie candeline. Frugo, ma indarno: non ho il becco d’un quattrino. Non importa, Amore canterino, Amore ballerino. Non m’importa più, vedere chi sono – chi sono stato. Ho visto abbastanza per comprendere che domani sarò ancora qui, non diverso ma invecchiato d’un giorno almeno, e così sino alla fine dei calendari che mi restano da amputare nei ricordi che ho di te – nella confusa dimenticanza che ho di me.
Bussano alla porta. Chi potrà mai essere? Bussano, bussano per derubarmi di quel poco che m’è rimasto. Glielo lascerò prendere: a me non serve, non più. Posso andare avanti con meno di niente. Non desidero spargimenti di sangue. Aprirò quella porta del diavolo, vivrò la compagnia dei ladri. Sarà facile, sarà inutile? Al diavolo, al diavolo. Apro perché bussano e non sopporto l’insistenza.
Sì, sei quella che conoscevo. Ti riconosco. Ma sei… sei così gonfia! Come una vescica di bile è il tuo volto. Ah, non basta la calza a rete, non maschera la cosa che sei diventata: ti riconoscerei anche spogliata della carne. Ed allora perché mi minacci? perché mi punti l’indice alla gola come fosse un coltello?
“Te lo ricordi il consiglio?”
Resti in silenzio. E’ dunque vero quello che si dice in giro: le puttane godono ascoltando la voce dei loro clienti. Io però non sono uno di quelli lì! Con me non funziona. Il consiglio non l’ho mai dimenticato.
“Ci sono solo briciole, poche per giunta. Puoi prenderle tutte se ti fa piacere. Puoi dividerle con il tuo compagno. A me non darà fastidio.”
Il tuo uomo mi spacca il naso. Sanguino. Ho il setto nasale andato. Non frigno, non fa male.
“Ce l’hai una sigaretta?” E’ il tuo compagno a infilarmela in bocca: non è poi così stronzo come avevo pensato.
Raccogli tutte le briciole, mi scavi pure nelle tasche e ti ritrovi in una fotografia, nel suo giallo, nel tempo che è passato inesorabilmente. La trattieni per pochi attimi fra le grasse mani, poi mi strappi la sigaretta dalle labbra e mi cacci la foto in bocca e mi ordini d’ingoiarla. Obbedisco, ingoio il giallo, tutto il tempo che è stato con me – a tenermi compagnia.
Poi mi chiedi di cantare con la mia voce che stona: “An angel on a Harley Pulls across to greet a fellow rolling stone/ Puts his bike up on its stand/ Leans back and then extends A scarred and greasy hand/ Hells Angel/ How ya doin bro?/ where ya been?/ where ya goin? […] The bitch said something mystical/ So I stepped back on the curb again/ These are the pros and cons of hitchhiking/ These are the pros and cons of hitchhiking/ Oh babe, I must be dreaming again…” (*)
Il tuo compagno applaude – è così simile a un clown. Ma mi piace. Tu, invece, non lo sapevi che la sapevo ‘sta canzone. Gli anni passano per tutti, anche per me, solo questo, Pros. E vomiti, rimetti tutte le briciole. Rimetti un giallo giallissimo che ti uccide.
* * *
E’ così facile adesso: nessuno bussa più alle porte del paradiso, ma le brave ragazze continuano sempre a cercare un principe azzurro migliore di me, mentre le cattive s’accontentano del primo povero diavolo incontrato sulla strada dell’inferno; e lo dissanguano.
* * *
Ogni tanto il clown mi sorride, ma preferisco di gran lunga quando m’allunga una sigaretta e me la caccia in bocca. Adesso parliamo anche, scambiamo qualche battuta su di te, giusto per passare il tempo.
“Era così grossa che il cassonetto s’è ribaltato.”
“E’ stata una faticaccia cacciarcela dentro. Però, la soddisfazione dopo, indescrivibile. Grassissima.”
Ecco, battute del genere, forse sempre le stesse. E ridiamo. O fumiamo.