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L’assetto di Occident non è esattamente un aspetto seminale dell’opera, il film è infatti strutturato in episodi intersecati tra loro dimodoché dal primo si dipanino anche gli altri creando un gioco di rimandi, dettagli e incastri rivelatori. Mungiu opta per una triplice suddivisione anticipata da una scritta sullo schermo riguardante comunque quella che altro non è se non un’unica storia i cui tre affluenti convergono sull’assunto comune del titolo. I primi due episodi, oltre che essere molto ben amalgamati tra loro, hanno un gran ritmo e si seguono che è un piacere: ciò che viene raccontato, nonostante il rimescolio dei fattori, è sempre il desiderio di andare via che però deve fare i conti con le difficoltà locali, nel mentre si fanno suadenti le sirene occidentali: che sia un uomo francese incontrato al cimitero, che sia un diplomatico belga in visita ad un orfanotrofio, o che sia (per la famiglia che vuole accasare la figlia) un uomo italiano sentito solo per telefono, senza dimenticare poi le agenzie di incontri specializzate nel reclutamento di compagni europei per la donna rumena, l’uomo-Occidente diventa simbolo idealizzato di miglioramento e di libertà, non pensando però ai metodi e alle conseguenze con cui si persegue la meta (la fidanzata di Luci che scappa con un uomo che probabilmente nemmeno ama ma che le garantisce un futuro o i preparativi esilaranti per l’arrivo di Luigi [uno dei momenti migliori del film] e l’effettivo arrivo che squaderna barriere culturali dietro l’apparente voglia di euro-alterità). C’è però il terzo episodio del colonnello ad abbassare la media complessiva, un episodio che vuole insinuarsi nel tessuto dei due precedenti ma che subisce un piccolo rigetto per colpa di un tentativo troppo elaborato di far coniugare i vari eventi, nonostante anche qui sia presente il topic principale (d’altronde tutto riguarda il ritorno di un uomo dalla Germania che porta con sé brutte notizie), la comicità perde di brillantezza e poco o nulla si aggiunge a quanto si era visto fino a quel momento.
Chi identifica Mungiu soltanto con 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni (2007) farebbe bene a recuperare anche questo suo lungo d’esordio, un bell’esempio di come non sempre la metrica usata per raccontare il declivio inarrestabile provocato da un regime debba protendere alla tragedia, si può essere ugualmente (se non di più) efficaci pizzicando con i modi del fine sarcasmo.
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