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‘Occupy Pd’, la fronda socialdemocratica che può salvare il partito di Bersani

Creato il 10 luglio 2012 da Candidonews @Candidonews

‘Occupy Pd’, la fronda socialdemocratica che può salvare il partito di Bersani

Un articolo de Il Foglio parla della corrente ‘Socialdemocratica’ presente nel PD. Gli ex ‘turchi’, bersaniani, che ora stanno facendo ‘squadra’ per impedire una deriva centrista nel Partito Democratico riportando a Sinistra la barra del programma politico. Fassina, Orfini e gli altri, a parere mio gli unici elementi validi presenti nei Democratici che mi fanno ben sperare per il futuro. Inutile dire che mi ritrovo quasi totalmente nella loro piattaforma politica. Posso quindi forse essere ascritto alla corrente degli ‘Occupy Pd’?

Riporto alcuni estratti dal pezzo di Guido Cerasa :

Arrivano gli occupy Pd

Chi sono, cosa pensano e cosa vogliono le guide della rivoluzione neo-socialdemocratica del Pd. Fassina, Orfini e la vera natura del bersanismo al netto dell’antibiotico montiano. Due libri

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Nel centrosinistra invece, nonostante il Pd sia alleato fedele di Monti, il fenomeno dell’anti montismo a poco a poco si sta strutturando come una genuina e tutt’altro che estemporanea corrente di pensiero: una corrente che si sta affermando tra i principali quadri dirigenti del partito e che giorno dopo giorno dà l’impressione di essere il vero volto di lotta di questo strano e irresistibile Pd di governo. I protagonisti e gli animatori di questa corrente di pensiero – che da mesi si sta impegnando per offrire al Pd la possibilità di intercettare il magma incandescente dell’anti montismo, anche per non delegare questo compito a nessuna sciagurata e famigerata lista civica – sono alcuni smaliziati ragazzoni post-comunisti che da un anno a questa parte hanno creato in tutta Italia una buona rete di contatti con le principali arterie rosse del Pd, e che da mesi ormai si sono affermati nel dibattito pubblico attraverso le dichiarazioni, le interviste, le esternazioni, le iniziative, le manifestazioni e le provocazioni dei vari Matteo Orfini (responsabile Cultura), Stefano Fassina (responsabile Economia), Andrea Orlando (responsabile Giustizia), Gianni Cuperlo (capo del centro studi Pd), Nico Stumpo (responsabile Organizzazione), Stefano Bonacini (segretario regionale dell’Emilia Romagna), Katiuscia Marini (governatore dell’Umbria) e naturalmente Enrico Rossi (governatore della Toscana).
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Mese dopo mese, però, i “turchi” sono riusciti a ritagliarsi uno spazio importante nell’inner circle bersaniano, e nonostante le apparenze e nonostante il montismo coatto che il Pd è stato costretto ad ingoiare in questa fase finale della Seconda repubblica, nelle prossime settimane gli Orfini, i Fassina e compagnia rischiano di diventare sempre di più pedine chiave all’interno della campagna elettorale del segretario del Pd: specie poi se Bersani continuerà a mettere al centro della sua corsa alla premiership l’idea – già esplicitata tra l’altro nel 2009 quando si candidò alla guida del partito – di prendere le distanze da “una finanza sempre più spregiudicata”, di riscrivere “il grande patto nazionale tra capitalismo e democrazia”, di combattere “quel pensiero unico neoliberista che ha influenzato anche tanti riformisti” e di disegnare insomma il Pd sul modello delle (non troppo montiane) nuove socialdemocrazie europee.
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Ma al di là delle apparenze, e seppur nel Pd ci sia un fronte piuttosto nutrito di dirigenti che chiede a Bersani di sfruttare l’occasione dell’appoggio al governo Monti per far ritrovare al Pd il suo “vecchio slancio riformista”, la verità è che, a poco a poco, i turchi hanno consolidato le proprie posizioni in alcuni posti chiave del partito; hanno coinvolto nel proprio progetto sempre più personalità sul territorio; hanno permesso a Bersani di non perdere contatto con quello che poi è ancora il vero azionista di maggioranza del partito (la Cgil, e in parte la Fiom, con cui Orfini, Fassina, Orlando, Rossi, Stumpo, come è noto, hanno ottimi rapporti, al punto che i “turchi” sono tra i pochi dirigenti del Pd che non perdono occasione per dirsi “vicini” al sindacato ogni volta che il sindacato scende in piazza per manifestare contro lo stesso governo a cui il Pd però rinnova periodicamente la fiducia); hanno conquistato la benevolenza del segretario (Fassina, per dire, scrive e rivede ancora molti dei discorsi di politica economica pronunciati da Bersani); hanno contribuito a dare al Pd una certa immagine di “rinnovamento” (quando il segretario sostiene che il rinnovamento il Pd lo ha fatto, Bersani intende dire che già dall’inizio della sua esperienza alla guida del Pd ha riempito la segreteria di giovani come appunto Stefano Fassina, 46 anni, e Matteo Orfini, 38 anni); e alla fine dei conti, proprio come facevano un tempo le giovani matricole per affermare le proprie idee nei rispettivi licei di appartenenza, si può dire che, tra una cosa e un’altra, tra uno sciopero e un convegno, tra un’intervista e un’invettiva, tra una provocazione e una dichiarazione, hanno ormai di fatto silenziosamente occupato il Pd di Bersani. In particolare, Fassina e Orfini, che sono poi i due volti più esposti degli “Occupy Pd”, dopo aver per mesi contribuito a combattere con il segretario “il pensiero unico neoliberista”, hanno ora esplicitato le proprie posizioni in due saggi interessanti attraverso i quali emerge con chiarezza quello che è il vero universo di lotta del Pd di Bersani. Un universo in cui le stelle fisse sono rappresentate non solo dall’evocazione in chiave moderna del vecchio pensiero socialdemocratico; ma anche dalla declinazione di quelli che sono i tratti distintivi del Pd bersaniano: il no al liberismo sfrenato, il no all’Europa dell’austerity, il no ai principi del Lingotto, il no al populismo, il no alla personalizzazione della politica, il no alle intromissioni della Bce nella vita degli stati sovrani, il no alla distruzione dello stato sociale, il no allo smantellamento dei corpi intermedi, il no alla mediatizzazione della politica, il no alla regressione del mercato del lavoro, il no al blairismo, il no al clintonismo e il no più generico alle “follie” del mondo della finanza.

In estrema sintesi, il succo del progetto politico formulato dai laburisti (ma anti blairiani) del Pd lo si potrebbe riassumere attraverso l’evocazione dei tre punti cardinali del progetto neo-socialdemocratico del Pd. Gli “Occupy Pd”, in primo luogo, sostengono che fino a oggi il più grave errore delle “cheerleader del liberismo” è stato quello di aver fatto credere che fosse possibile, attraverso il libero mercato, ridistribuire la ricchezza all’interno della piramide sociale e garantire così benessere e crescita diffusa non soltanto ai soliti e arricchiti ceti medio alti. “Durante gli anni del trionfo neo-liberista – scrive Fassina in “Il lavoro prima di tutto”, edizioni Donzelli – una parte della sinistra, la cosiddetta sinistra critica, si è arroccata e ha ripetuto in modo quasi ideologico formule inservibili, come, ad esempio, ‘più spesa pubblica uguale a più crescita e più occupazione’, indipendentemente dalla qualità della spesa, dalle condizioni della finanza pubblica, dalla situazione del sistema produttivo privato. L’altra parte della sinistra, i seguaci della Terza via, ha sofferto di subalternità al paradigma neo-conservatore e, quindi, nel momento in cui quel paradigma si dimostrava insostenibile, si è trovata sostanzialmente disorientata, senza risposte”.
In secondo luogo, i ragazzi dell’Occupy Pd ritengono doveroso ricordare che la crisi finanziaria ha dimostrato, senza appello, che il collasso dell’economia mondiale è stato causato non dalle sregolatezze degli stati sovrani ma da un perverso e poco virtuoso meccanismo innescato in modo doloso dal mondo della finanza. “La convinzione che fosse sufficiente lasciare al mercato piena libertà per produrre crescita e sviluppo universali – scrive Orfini in “Con le nostre parole” (Editori riuniti) – è una tesi di indubbio fascino, che ha iniziato però a cozzare contro il principio di realtà quando proprio quegli stati che si sarebbero dovuti guardar bene dall’intervenire sono invece dovuti correre in soccorso di alcuni tra i principali colossi della finanza e dell’industria, per evitarne il fallimento. E non è un caso che proprio quelle istituzioni che avrebbero dovuto contenere l’incendio sono state tra i protagonisti della costruzione di un sistema in cui i profitti sono privatizzati e le perdite socializzate: un corto circuito paradossale, per cui il sistema finanziario finirà per guadagnare persino dalla sua stessa crisi, presentando il conto ai cittadini; per cui l’intervento pubblico diventa un confortevole e rassicurante paracadute per i teorici del non intervento; e per cui le istituzioni chiamate a gestire l’emergenza vengono sopportate solo il tempo necessario a impedire la catastrofe, per essere subito dopo riaccompagnate alla porta”.

Il terzo elemento chiave del fronte socialdemocratico del Pd – elemento che, come i primi due, costituisce anch’esso uno dei fuochi del Bersani pensiero – riguarda la critica feroce rivolta dagli Occupy Pd a tutti quegli “improbabili maître à penser” del liberismo che in tutti questi anni, in modo subdolo, si sono impegnati per convincere il mondo che fosse necessario privatizzare tutto, smantellare lo stato, sopprimere i corpi intermedi, abolire i sindacati e regalare di fatto la nostra intera esistenza al famoso libero mercato. “I grandi partiti – osserva Orfini, provando a spiegare quali sono stati i riflessi di questa “suicida” opera di “distruzione dello stato sociale” e svelando la ragione per cui il Pd bersaniano non riesce ad avere un rapporto sereno con le leadership carismatiche – hanno visto negata alla radice la propria funzione di interpreti, pur nell’interesse generale, di un punto di vista parziale e sono divenuti pesanti fardelli sulle spalle di leader sempre meno radicati nella società, ma sempre più legittimati nei salotti televisivi. Leader sempre più simili a star di Hollywood che di quei fardelli cercano di liberarsi, preferendo affidarsi a sempre più costose società di comunicazione. E così – continua Orfini – quei partiti che avevano attraversato il Novecento, forti di un robusto radicamento sociale, nel periodo del grande inverno liberista perdono più o meno volontariamente il rapporto diretto con la società: è l’epoca dei partiti leggeri, liquidi che privatizzano quel rapporto affidandone la gestione a sondaggisti di fiducia che forniscono sempre più sofisticate rappresentazioni di quella che dovrebbe essere la realtà, salvo poi dimostrarsi incapaci di leggere il cambiamento e di cogliere i fenomeni nuovi che si agitano nella pancia della società”.


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