Il fantasma (2000), primo lungometraggio di João Pedro Rodrigues che al tempo giudicai con quella superficialità tipica dell’ignoranza, possedeva una precisa coerenza d’intenti: voleva essere un film morboso e tramite un racconto maculato di morbosità riusciva costitutivamente ad esserlo. Cinque anni più tardi il regista lusitano si ripropone con Odete, opera che vive della spinta del film precedente (anche qui la dimensione sessuale è un lato importante di ogni personaggio) ma che sa protendersi oltre, tangendo i litorali di un romanticismo funebre, analizzando con un distacco non privo di accenti surreali la doppia faccia dell’Ossessione affidandosi alla geometria nel disegnare triangoli amorosi i cui vertici finiscono per interscambiarsi gli uni con gli altri.Ad esclusione di due momenti all’interno della storia privi di solidità (mi riferisco al modo frettoloso e immotivato con cui Odete caccia via Alberto e a come faccia la protagonista ad intrufolarsi in casa di Rui), il film di Rodrigues è cinema dalla forza sotterranea apparentemente anestetizzato in un’andatura felpata; quando però emerge (questa forza) coglie piena realizzazione negli studi estetici del regista che ricerca in più occasioni l’effetto inaspettato: movimenti ascendenti o restringenti, scene gemelle (i baci), paesaggi (cimiteriali) di grande pulizia e profondità ottica, e poi di nuovo (in riferimento al film precedente) una visione del sesso laterale, forse meno votata all’appagamento del piacere perverso e più orientata alla soddisfazione di un bisogno primario come la maternità (a tal proposito la scena in cui Odete copula col tumulo di Pedro è l’istantanea che ti si fissa lì).
Snobbando le linee guida della psicologia preconfezionata, Rodrigues rende Odete una donna credibilmente in balia della propria follia, e se inizialmente la fuoriuscita del compagno poteva legittimare la costruzione immaginaria di un rapporto con Pedro in modo da modificare la realtà secondo il proprio intimo volere, con la progressiva intromissione nella vita del ragazzo defunto (Odete che va a dormire nella stessa camera) questa chiave di lettura viene sbriciolata dal processo di autodisidentificazione che si trasforma in riconfigurazione di sé, in modo molto anarchico, svincolato dai meccanismi narrativi, e ipoteticamente legato ad un filo sentimentale reciso e subitaneamente riallacciato con un nuovo partner (Rui), il quale a sua volta mosso dal devastante dolore della perdita tenta di mitigare l’amore svanito con insoddisfacenti incontri effimeri, per poi venire risucchiato anche lui nel vortice irrazionale della spersonificazione, puzzle identitario non ricomponibile divorato dai suoi istinti: la donna diventa uomo, l’uomo diventa donna, e intanto l(‘)a mor(t)e, immobile, osserva.