Questo week end non mi trovavo nella mia città natale (Padova) né in quella mia adottiva (Torino) per questioni di lavoro. Sono stata ospite di una di quelle pensioni che si trovano in quelle zone grigie di una città, tra stazione ed ospedale. Nulla di glamourous, nulla di chic, ma quel sapore stantio di pensione di infimo ordine.
Comunque pulita e comoda. Ma non è questo il punto, su cui vorrei soffermarmi. In effetti questo post è un po’ off topic rispetto al mio genere solito, ma anche no. Mi aiuta, e forse aiuta a capire, che la vita è fatta soprattutto di "altro": di altro rispetto alle banali discussioni sui fashion blogger, di altro rispetto all’inaccettabile di qualche critica per il proprio look, di altro rispetto alle frivolezze di cui io per prima, fortunatamente, riesco a godere.
Questa mattina mi sono svegliata per partire, svegliata dall’insistenza della cameriera che doveva rifare la camera. Quanta fretta – ho pensto- dopo tutti questi giorni di iper lavoro nemmeno si può riposare…
Il mio fidanzato comincia a portare fuori le valigie, quando la cameriera gli dice che dall’interno di una stanza una signora ospite non rispondeva alle sue domande. Chi fosse, non lo sapeva. Se fosse ancoa dentro la camera, non ne era certa. Al che interviene il mio fidanzato invitando la cameriera a prendere le chiavi per aprire la porta della camera, per verificare che la signora all’interno non stesse male. Dei proprietari dell’albergo, nemmeno l’ombra. Non un recapito telefonico, non un referente.
Aperta la porta trovano una donnina stesa sul letto che sta male, lamenta forti dolori al petto e formicolio alle braccia. Chiamiamo subito il 118, la cameriera è paralizzata dalla paura, io entro in camera e lì c’è questa esile donna stesa sul letto che rantola. Mi avvicino, le tengo la mano, le faccio delle domande per non farle perdere coscienza. Mi guardo intorno, non ha nulla, questa povera donna. Solo la borsa. Le chiedo cosa ci faccia in un albergo del genere una donna sola, senza nulla, senza una valigia. A fatica mi risponde che la sera prima era stata al cinema ma, non sentendosi bene, non era riuscita a tornare a casa e si era fermata lì. Le chiedo se posso avvisare qualcuno della sua famiglia, chi chiamare e lei mi risponde “Non ho nessuno, sono sola, lasciami morire”. In quelle poche parole, in quei miseri abiti da pochi euro, colgo tutta la disperazione e la sofferenza di chi, nella vita, sente di non avere più nulla. Di chi è disperato, e disperatamente solo. Di chi è costretto a trovare qualche parola di umanità in una persona che non rivedrà mai più nella vita, e che mai saprà chi sia.
Arriva l’ambulanza, arrivano i medici, dopo due ore arriva anche il proprietario dell’albergo che categorico, riferendosi ad un sacchetto di nylon contenente le scarpe e la borsa della donna, dice ai portantini di portare via tutto, che lui non vuole problemi e rogne. Come si può definire un essere spregevole di questo tipo? Chi non coglie la disperazione e la tristezza di un essere umano, che è solo, e che non ha nulla? L’hanno portata all’ospedale questa signora. Non so che cosa avesse. Di sicuro un immenso, insopportabile dolore per questa vita; un rifiuto inaccettabile per persone come il proprietario di quello squallido albergo, il bisogno di trovare due persone come noi, che le dessero una mano, che le dessero attenzione.
Ho pianto tutta la mattina poi. Come possiamo vivere in un mondo così, dove tutto il più superfluo e il più frivolo diventa importante e dove la vita e la solitudine di alcuni, forse di molti, diventano solo un disturbo, un impiccio del superfluo e banale fluire di una vita insignificante?
Ditemelo voi, perché io una risposta non l’ho trovata.