Magazine Cultura
Avevo promesso un post sulla "mediazione coniugale" ma un evento extra-ordinario mi obbliga a differirlo, pur rimanendo nel'ambito del coniugale... anzi del coniugare.
Sabato 7 luglio ho avuto, infatti, l'onore di oficiare l'amore di due carissimi amici, così come prevede il comma 3 dell'articolo 1 del decreto n° 396/2000 del Presidente della Repubblica che, appunto, dispone la possibilità per ogni cittadino che abbia i requisiti per essere eletto consigliere comunale, di far convolare a nozze, con rito civile, i nubendi che lo desiderino.
Grande, chiaramente, la mia emozione nell'adempiere a un 'siffatto compitoper due persone a me così speciali che, oltre ad onorami con questa investitura, mi hanno dato la possibilità di dare (seppur simbolicamente) concretezza istituzionale a quella figura di mediatore familiare che non separa né unisce, ma accompagna a narrare positivamente e costruttivamente le "cose dell'amore", siano esse alla sua fine o al suo inizio.
Ho così cercato, per quanto nelle mie possibilità, di dare ritualità a un evento che, nel civile, è spesso drasticamente ridotto a quella natura spietatamente burocratica che un assessore, più o meno scazzato, snocciola in punta di articoli del codice civile.
Credo sia capitato a chiunque di assistere a un matrimonio comunale sbrigato via in poco più di un quarto d'ora in cui nemmeno gli sposi capiscono quel che accade. Matrimoni così veloci e talmente scevri da qualsivoglia ritualità che si fatica persino a immortalarli.
Non che nei matrimoni cattolici le cose vadano poi meglio, con la loro pomposità spesso tanto ipertrofica da ottenere lo stesso azzeramento di senso.
Entrambi, mi sembra di poter dire, hanno perduto, per difetto o per eccesso, la fondamentale aderenza al significato profondo del matrimonio: quando due persone annunciano al mondo il loro amore, il loro progetto esistenziale.
Un significato che non è da ricercare nella pedissequa adesione della coppia alle leggi dello Stato o della Chiesa (per altro, come mostrano le statistiche, entrambe largamente disattese, dallo Stato e dalla Chiesa in primis), bensì nell'adesione di ogni terzo che assiste a quel progetto di vita che la coppia dichiara cercando, in quella comunità di astanti (scelti proprio per la loro vicinanza e importanza), un'appoggio che sarà determinante al perdurare di quell'amore.
Uno degli elementi che ha smarrito la nostra contemporaneità e che, insieme a molti altri, lavora in direzione di una precoce dissoluzione della vita di coppia, è proprio la natura pubblica dell'amore che il matrimonio era chiamato a palesare responsabilizzando, in egual modo, la coppia come la comunità cui essa aderiva.
Una storia d’amore, infatti, non è mai faccenda strettamente privata (checché ne dica il celebrante del film "Casomai" su pubblicato). Terzi di diversa entità sono sempre presenti nella vita di ogni coppia in una specie di comunità psichica che influenza in diversi modi (di cui non mancheremo di occuparci nei post a venire) il loro amore prima che si formi e dopo che si è formato.
Questa è la comunità che gli sposi invitano al loro matrimonio perché (e in questo concordo con il prete di "Casomai") quando due persone amano, il loro amore è linfa vitale per il mondo e il mondo, in qualche modo deve (dovrebbe) ricambiare.
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Massimo Silvano Galli
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