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Qui di seguito un testo scritto da Riccardo De Mutiis, esperto di relazioni internazionali, conoscitore della realtà balcanica anche per aver partecipato a diverse missioni patrocinate da istituzioni internazionali. Passaggio a Sud Est ha già pubblicato diversi suoi pezzi: per ritrovarli clicca qui.
Il 12 marzo 2003 a Belgrado spirava forte la kosava, il vento che viene dai Carpazi, filtra attraverso il Portil de Fier e segue il corso del Danubio finendo con l’investire la capitale serba. Ed in quella giornata ventosa la città bianca e l'intera nazione vengono tramortite da una notizia terribile, quella dell’assassinio di Zoran Djindjic, primo ministro della repubblica federata serba (all’epoca la Serbia era parte dell’Unione di Serbia e Montenegro, la compagine statale che il 4 febbraio 2003 prese il posto della Jugoslavia fino al 2006, quando il Montenegro dichiara l'indipendenza). Sono passati undici anni dalla morte di Djindjic ed è davvero difficile dire qualcosa di nuovo sulla carriera politica o sull'assassinio dello statista serbo: due argomenti su cui si è davvero detto e scritto tanto e che, peraltro, si intersecano fino a diventare un tutt'uno, dato che secondo la lettura più accreditata le ragioni dell'assassinio vanno ricercate proprio nella linea politica seguita da Djindjic.
Vi sono tuttavia due aspetti su cui giornalisti e scrittori, soprattutto stranieri, si sono soffermati meno e su cui forse è il caso di spendere qualche parola. Il primo aspetto da porre in evidenza è quello della totale diversità di Djindjic rispetto ai politici dell’ex Jugoslavia suoi contemporanei: una diversità che si concretizza non solo nei contenuti della sua visione politica, ma anche nel suo modo di proporsi e di relazionarsi con l'esterno. Zoran Djindjic sale agli onori della ribalta politica nel 1997 quando, a capo della eterogenea coalizione “Zajedno” (Insieme), infligge nelle elezioni amministrative una cocente ed inaspettata sconfitta a Slobodan Milosevic e viene eletto sindaco di Belgrado. A quell’epoca i leader dei vari Stati nati dalle ceneri della ex Jugoslavia si caratterizzano per una immagine del tutto ordinaria: vestono abiti da budja (il termine serbo-croato che sta per apparatchik), in qualche occasione di una taglia superiore a quella giusta, senza nessuna concessione all’eleganza. E’ un tratto, questo, che accomuna Franjo Tudjiman, con le sue insolite e sorpassate lenti fotocromatiche, Alija Izetbegovic con la sua eterna e logora cravatta rossa, ed anche Stipe Mesic, preso di mira dai caricaturisti per le sue sopracciglia incredibilmente cespugliose.
Zoran Djindjic è del tutto diverso: alto ed atletico, veste eleganti completi scuri ed è proprio il suo look, prima ancora che la sua politica, a catturare l’attenzione dei media e della gente. Insomma il nuovo arrivato, prima di tutto dal punto di vista dell’immagine, segna un distacco netto nei confronti dei suoi predecessori, ed è un messaggio che i politici della sua generazione colgono immediatamente, partendo dal suo amico montenegrino Milo Djukanovic, passando per il suo epigono Boris Tadic, per finire con il croato Ivo Sanader: tutti eleganti, curati nell'immagine, fisicamente prestanti. Ma se i politici contemporanei colgono i caratteri innovativi di Djindjic, almeno quelli esteriori, e li replicano, la massa resta sconcertata dall'irruzione di questo uomo così diverso da quelli che lo hanno preceduto. E Djindjic stesso, animale politico di razza, si rende perfettamente conto di non avere l’appeal giusto per conquistare un elettorato legato a valori tradizionali e su cui ancora incide mezzo secolo di conformismo comunista.
Su tale presupposto, sulla consapevolezza della propria estraneità al tessuto sociale serbo ed ai suoi valori, si fonda la sofisticata strategia posta in essere da Djindjic in occasione delle elezioni presidenziali jugoslave del 2000: da un lato, grazie al suo carisma ed alle sue doti organizzative, riesce ad unire in un’unica coalizione le forze che si oppongono a Milosevic, e dall’altro, per aumentare la presa sull’elettorato di tale coalizione, vi mette a capo un uomo in cui in cui i serbi si riconoscono, Vojislav Kostunica. All’epoca Kostunica è assolutamente sconosciuto in Europa e nel suo stesso paese non è un politico di primo piano. Tuttavia è una persona che appartiene al mondo serbo, ed in particolare è un tipico esponente di quella parte della Serbia in cui Milosevic ha il nocciolo duro dei suoi elettori: non certo la Serbia della capitale o la Serbia di Novi Sad, ma quella del sud, quella della Sumadija, più in generale la Serbia rurale, i cui valori fondamentali, quelli patriarcali, del nazionalismo e della stretta osservanza ortodossa sono incarnati alla perfezione da Kostunica.
Kostunica è lo strumento attraverso il quale Djindjic riesce ad assicurare alla sua coalizione Dos (Demokratska Opozicija Srbije, Opposizione Democratica Serbia) il consenso di buona parte dell’elettorato tradizionalmente legato a Milosevic e quindi la vittoria: il vodz Slobodan viene sconfitto nettamente e Kostunica viene eletto presidente dell’Unione di Serbia e Montenegro. Di lì a qualche mese Djindjic guida l’opposizione a vincere anche le elezioni serbe e sarà lui, questa volta, a guidare l’esecutivo federale. La coalizione, a questo punto, sembra avere partita vinta su tutti i fronti, con Kostunica alla guida della federazione jugoslava e Djindjic a capo della repubblica serba. Ma non è così e i contrasti tra i due non tardano ad emergere. E’ chiaro sin dall’inizio che i due non sono fatti per intendersi, per formazione, carattere, abitudini e frequentazioni: all’economista Djindjic, che ha studiato e si è formato professionalmente in Germania, sempre elegante e sicuro di sé, spesso in compagnia della telegenica moglie Ruzica nelle apparizioni pubbliche e che preferisce per le sue esternazioni la stampa internazionale (preferibilmente tedesca, “Die Welt” e “Der Spiegel“), si contrappone il giurista Kostunica, laureato alla università di Belgrado, evidentemente a disagio nei contesti internazionali, in cui si è segnalato per le frizioni avute con Carla Del Ponte, all'epoca procuratrice del Tribunale penale internazionale. La differenza caratteriale tra i due è esemplificata dalla diversità degli hobby: Djindjic preferisce fare sport nel tempo libero, ed infatti si frattura un piede giocando a calcio nel febbraio 2003, mentre Kostunica è noto per la sua passione per i gatti, che ospita in buon numero nella sua casa belgradese.
Da un punto di vista politico la diversità tra i due è evidenziata dallo stesso nome dei partiti politici che ciascuno di essi capeggia. Kostunica presiede lo Sds (Srpska demokratska stranka, Partito democratico serbo), mentre Djindjic è il leader del Ds (Demokratska stranka, Partito democratico): denominazioni quasi identiche, divergenti solo per l'aggettivo “srpska” cioè serbo, presente nel nome del partito di Kostunica ed assente in quello di Djindjic, a significare che la connotazione serba, cioè nazionalista, caratterizza il programma del primo e non quello del secondo. Non a caso il contrasto tra i due leader nasce a proposito di una questione di sapore tipicamente nazionalista, quella relativa al Kosovo, alla cui eventuale indipendenza Kostunica si oppone decisamente, mentre la posizione sul punto di Djindjic è più sfumata. Ed è di nuovo un problema che chiama in causa l’orgoglio nazionale serbo, quello della sorte di Milosevic, a rendere irrimediabile il contrasto tra Kostunica, nazionalista più per calcolo che per convinzione, e Djindjic, europeista convinto. Secondo Kostunica Milosevic deve essere processato da un tribunale serbo, mentre Djindjic vuole che venga giudicato dal Tribunale internazionale sulla ex Jugoslavia dell’Aja e la spunta, facendo arrestare Slobo nel marzo 2001 e consegnandolo alle autorità della giustizia internazionale: il tutto all’insaputa pare (ma questa è tutta un'altra storia), di Kostunica.
La vicenda della morte di Zoran Djindjic, e qui passiamo al secondo aspetto della vicenda che è interessante sottolineare, presenta degli aspetti particolari, sconosciuti ad altri omicidi politici che pure hanno segnato la vita di altri Paesi, ed in questo senso rappresenta l’ ennesima dimostrazione della assoluta unicità della storia serba. Ciò che rende l’assassinio un fatto irripetibile, senza eguali nelle vicende straniere, è la reazione che esso scatena da parte delle autorità. Una reazione originata dalle modalità di esecuzione del delitto: Djindjic viene assassinato in pieno giorno nel cortile della Skuspstina, il parlamento serbo, e cioè il cuore della nuova politica. Il primo ministro viene colpito nella sua sede istituzionale, il parlamento: il messaggio è chiaro, si tratta di una sfida alle istituzioni statali, di cui è in gioco la stessa sopravvivenza. Le autorità si rendono conto che coloro che hanno ucciso Djindjic hanno degli appoggi, anche ad alto livello, all'interno dell’apparato statale, in particolare tra la magistratura e le forze armate, ed optano quindi per una reazione drastica: viene proclamato lo stato d’emergenza, si da il via all’operazione "Sablja" (sciabola) finalizzata ad individuare mandanti ed esecutori materiali del delitto. Vengono chiusi i giornali sospettati di essere collegati con la mafia di Zemun, agli arrestati vengono negati i contatti con gli avvocati e vengono tenuti all’oscuro dei capi d’imputazione per diversi giorni, vengono bruscamente licenziati i magistrati indiziati di collusione con i mandanti dell’ omicidio, vengono distrutti gli immobili di proprietà Dusan Spasojevic, leader del “clan di Zemun”, indiziato di essere al vertice del complotto, e lo stesso Spasojevic viene ucciso per la resistenza opposta al momento dell’arresto in circostanza ancora da chiarire, il tutto con circa 7000 fermi di polizia nel giro di un mese. In sostanza una sospensione dello stato di diritto, una parentesi di negazione dei diritti di difesa garantiti da qualsiasi regime democratico agli indagati: in una parola un fatto che non ha precedenti nella storia europea del dopoguerra.
Se poi riportiamo la vicenda di Djindjic dal contesto internazionale a quello nazionale, ci rendiamo conto di come essa si ponga nel solco di una tradizione, ancora una volta unicamente e tipicamente serba, segnata dalla morte violenta dei leader istituzionali. Si parte con l’assassinio del principe di Serbia Mihailo III Obrenovic nel 1868 e si continua con l’omicidio del re Alessandro I Obrenovic e della moglie Draga nel 1903, i cui corpi vengono mutilati e gettati dalle finestre del palazzo reale: una efferatezza ed una ferocia che rivivrà in alcuni episodi delle guerre jugoslave dell’ultimo decennio del millennio. E per una sorta di nemesi storica muore assassinato nel 1934 anche il re Alessandro I, appartenente alla dinastia dei Karadjordjevic, che erano stati i mandanti degli omicidi degli Obrenovic. Di morte violenta cessa di vivere nel 2000 anche l’ex presidente della repubblica serba Ivan Stambolic ed il cerchio si chiude, lo sappiamo, nel marzo 2001 con l’omicidio di Zoran Djindjic (un caso a parte è quello dello stesso Milosevic, che muore mentre è detenuto nel carcere di Scheveningen, in Olanda). Nessuno stato europeo, ma forse nessuna nazione al mondo, ha avuto tanti morte violente dei suoi capi di stato o di governo.
A undici anni dalla morte di Djindjic, la prima osservazione che sorge spontanea a coloro che hanno frequentato e vissuto di persona Belgrado e la Serbia nell’ultimo decennio è che il leader politico serbo è molto più amato e considerato da morto di quanto lo fosse stato da vivo. Popolare ed amato, in vita, Zoran Djindjic, non lo era stato mai, e di ciò egli era perfettamente conscio, se è vero che aveva dichiarato “Popularity is not my job” ad una testata giornalistica straniera che lo aveva intervistato. Ma a distanza di dieci anni il ricordo di Djindjic è più vivo che mai, e la misura dell’interesse dei serbi per la sua figura non la danno tanto le celebrazioni ufficiali, ma, invece, la presenza nelle librerie di tante pubblicazioni che parlano della sua storia e della sua politica ("Akademija", la famosa e storica libreria belgradese sulla Mihailova è un infallibile termometro al riguardo). C'è il libro scritto dallo stesso Djindjic sulla integrazione europea della Serbia, “Put Srbije u Europu”, e la raccolta delle sue metafore, ma è soprattutto la sua “Biografija”, scritta da Bojan Dimitrijevic a riscuotere successo tra i lettori.
La ragione del permanere di tanto interesse per la figura di Zoran Djindjic è forse rappresentata dal carattere eccezionale dell’atto politico che lo ha reso famoso e forse gli è costato la vita: la consegna di Milosevic alla giustizia internazionale. Nessun capo di stato europeo, e torniamo per l’ ennesima volta al tema della singolarità delle vicende serbe, aveva compiuto un atto del genere, rischiando di essere considerato, come in effetti molti all’epoca considerarono Djindjic, un traditore. Ma se le commemorazioni di Djindjic, a un decennio dalla sua morte, sono ancora così sentite e partecipate ciò vuol dire che non solo gli analisti politici ma anche e soprattutto la gente comune hanno compreso il significato della scelta dell’ex primo ministro: la consegna di Milosevic era un atto necessario affinché la nazione recuperasse non solo stabilità e tranquillità interna, decisamente a rischio con il vozd a piede libero, ma anche credibilità internazionale. Valgano, per comprendere il senso dell’operazione decisa da Djindjic, le parole di Enzo Bettiza : Djindjic, consegnando Milosevic al Tribunale dell’ Aja ha umiliato l’orgoglio serbo, ma ha salvato l’onore dei serbi.
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