13 febbraio 2014
Vado a prendere mio figlio all'asilo, mentre usciamo viene giù il diluvio, il cielo è di uno strano color ruggine e la pioggia è mista a grandine, io e mio figlio ci ripariamo sotto l'ombrello, gli chiedo di camminare più veloce, lo incalzo ogni due passi, ma la sua andatura è infinitamente più rilassata della mia, non ha alcuna fretta, e soprattutto non ha quel timor panico della pioggia che abbiamo invece noi adulti, per lui la pioggia è per lo più un gioco, come lo è l'imbrunire (ogni volta che viene sera mio figlio si affaccia alla finestra e sorride rimarcando la novità del buio), allora rallento anch'io, mi adeguo, ciò che non riesco a contenere è la preoccupazione che si ammali, però penso anche che è abbastanza coperto, ha un cappello, una sciarpa e un giubbotto, abbiamo l'ombrello, perciò andiamo piano, ammirando i piccoli riflessi azzurri e rosa che si rimescolano nelle pozzanghere.
In un saggio su Elizabeth Smart, Natalia Ginzburg ha scritto:
"È noto che ci sono due modi di scrivere i romanzi. Un modo è costruire, architettare, fare calcoli nella propria testa come in un pallottoliere, spostare luoghi e persone pesanti come macigni. [...]L'altro modo è non costruire nulla, non architettare nulla e restare se stesso. [...] Chi scrive sa che dovrà scegliere fra l'ordine e il disordine. Oggi noi di solito scegliamo il disordine".
Abito da quattro anni in una casa che all'inizio aveva un aspetto estraneo, poi, a poco a poco, è andata assumendo un'aria familiare, e adesso che sono passati quattro anni comincia di nuovo a sembrarmi un posto sconosciuto, credo che il rapporto con le case assomigli alle storie d'amore, credo che, come le storie d'amore, anche il rapporto con le case segua una parabola discendente, e questa parabola ha qualcosa a che fare col mettere ordine in noi stessi, o, se si preferisce, col mettere disordine in noi stessi.