Magazine Diario personale

Oggi parliamo con… Emanuele Gagliardi

Creato il 12 agosto 2014 da Gialloecucina

Ospite del salotto di Gialloecucina oggi, intervistato da Alessandro Noseda è Emanuele Gagliardi. Chi volesse ulteriori info può consultare la sua pagina internet :

http://emanuelegagliardi.altervista.org/

 

Buongiorno e grazie per l’accoglienza.

Buongiorno. Sono io che ringrazio…

 

Quella che hai davanti a te è proprio…

… una macchina per scrivere, esatto! Una Olivetti del 1948. E non è per arredamento, ci tengo a dirlo: con questa prendo gli appunti e scrivo la prima stesura dei miei romanzi. Vedi, ho pure la carta carbone per le copie…

 

Parlaci di te, perché leggi e scrivi?

La macchina per scrivere può dirti già molto, e il mio look completa il ritratto: sono un tipo vintage. Non un semplice amante del vintage, bada bene. Io sono vintage fuori e dentro. Vesto capi anni Sessanta-Settanta, porto occhiali dell’epoca, ma pure il mio modo di concepire la vita ha i colori di quei decenni; ascolto la musica di allora, soprattutto Jazz, Funk e Disco – Oscar Peterson, Barry White, Gloria Gaynor, le Silver Convention, i People’s Choice … – e per il mio hobby, la fotografia, uso esclusivamente apparecchi a pellicola. Il più recente è del ‘74.

Quanto alla biografia propriamente detta: ho 44 anni, da 12 sono sposato con una meravigliosa donna brasiliana e abbiamo una fantastica bambina di 8 anni; sono giornalista, laureato in Scienze Politiche, studioso di storia e politica contemporanea dell’Estremo Oriente e lavoro in Rai come ricercatore dal ’99. Leggo e scrivo perché la fantasia è il tratto più prepotente della mia personalità. Devo lasciarla correre e compiacerla, sennò si mette a strattonarmi!

 

I tuoi romanzi, come nasce l’idea?

Da una luce, da una musica, da un luogo, da un odore… Scrivo thriller e noir ed anche i miei romanzi sono vintage, le vicende si svolgono negli anni ’60 e ’70, per cui basta uno di questi elementi per accendere la lanterna magica dei ricordi. Intorno a queste suggestioni modello la storia.

 

Dove scrivi? Hai un “luogo del cuore” dove trovi ispirazione?

Scrivo dove capita. Porto sempre in tasca un notes a quadretti, anche questo delle epoche amate. Li compro a Porta Portese in un banco di cartoleria antiquaria che per me è il paese dei balocchi. A casa trascrivo a macchina, inserendo qualche aggiustamento e altre idee estemporanee. Gabriel Garcia Marquez diceva che “Non c’è atto di libertà individuale più splendido che sedermi a inventare il mondo davanti ad una macchina da scrivere”. Sono parole che rendono in pieno la sensazione che provo, ovviamente nelle mie modeste proporzioni.

 

Preferisci il silenzio o ami musica di sottofondo?

Sottofondo musicale, sempre. Tante volte la musica mi ha “suggerito” cosa scrivere! Poco prima che arrivassi tu stavo ascoltando Armed and extremely dangerous dei First Choice. Dal vinile, naturalmente…

 

 Stavo appunto osservando l’Hi-Fi…

Piatto Thorens, sintoamplificatore NAD e diffusori Onkyo… Ero bambino quando mio padre mi portò con se a comperare questo impianto. Era il 1975. L’anno in cui ho ambientato il mio ultimo romanzo…

 

“La pavoncella”, appunto, la tua ultima fatica. Dove hai trovato spunto? Quanto prendi in prestito alla realtà e quanto è frutto di mera fantasia? Come delinei i personaggi?

Alcuni personaggi sono presenti in tutti i miei libri: il commissario Umberto Soccodato, che si ostina ad imitare il Maigret interpretato in Tv da Gino Cervi; sua moglie Marietta che irride senza troppi complimenti le idiosincrasie del marito ma quasi sempre gli imbecca la soluzione giusta per uscire dalle impasse; il brigadiere Santucci perseguitato dalla rinite allergica… Per gli altri personaggi mi affido totalmente alla fantasia. Magari dalla realtà prendo qualche tratto somatico, qualche sfaccettatura delle personalità, ma poi mischio le carte e tiro fuori individui del tutto nuovi dal cappello…

 

Porti il cappello?

Quando fa molto freddo uso il basco. Fa molto artista…

 

“La pavoncella” è un romanzo autobiografico?

No. Almeno nel senso letterale del termine. Se poi con “autobiografico” vogliamo intendere che all’interno della storia vi sono mie memorie, mie emozioni, mie sensazioni legate all’epoca di riferimento, allora questo, come gli altri, è un libro autobiografico.

 

Segui una scaletta o ti fai guidare dalla storia?

Una scaletta sarebbe utile, servirebbe a far tutto meglio e prima. Ma fatico a star dietro a un percorso obbligato. Forse anche per questo sono un “diversamente motorizzato”, cioè non guido l’auto. A me piace volare! Amo l’aereo, se non fossi miope avrei preso il brevetto. Mi lascio guidare, quindi, anche quando scrivo: prima c’è il ricordo, poi l’abbozzo della storia… il resto viene da sé.

 

Qual è la trama de “La pavoncella”?

Nella notte tra il 1° e il 2 novembre 1975 muore Pasolini. Pino Pelosi, il “ragazzo di vita” che lo ha massacrato a legnate, catturato poco dopo, confessa. Nonostante parecchie incongruenze, l’idea dell’assassinio maturato nell’ambiente della prostituzione omosessuale soddisfa i media e l’opinione pubblica. Ma fra gli intellettuali, come nelle forze dell’ordine, molti non sono convinti. Circola un’ipotesi che collegherebbe la fine di Pasolini alle “lotte di potere” nel settore petrolchimico, tra ENI e Montedison, tra Enrico Mattei – morto nel ’62 in circostanze non meno dubbie – ed il suo vice Eugenio Cefis. Pasolini, infatti, si era interessato al ruolo di Cefis nella storia e nella politica italiana facendone uno dei personaggi chiave del romanzo-inchiesta a cui stava lavorando prima della morte (quel Petrolio pubblicato postumo nel 1992). Così, quando in seguito, a distanza di una settimana l’uno dall’altro, vengono trovati i cadaveri seminudi di due alti dirigenti dell’ENI e spuntano le copie ciclostilate degli appunti di Pasolini con i nomi di maggiorenti della DC e dell’ENI legati alle vicende dello stragismo italiano, un brivido scuote parecchie schiene nei palazzi del potere. Oltre alla pista politica, però, altre sono possibili, e recano l’impronta di due donne: Santina Martino, pittrice e ballerina di danze orientali che usa la sua avvenenza per irretire e spillar soldi a facoltosi manager e Luana Dabrowska, moglie del Prefetto di Roma, dirigente all’ENI come i due morti; una donna dal passato oscuro le cui origini si perdono nella tragedia della repressione nazista nel ghetto di Varsavia. Due sirene… che renderanno al commissario Soccodato molto difficile dipanare la matassa.

 

Quali sono state le maggiori difficoltà nella stesura del romanzo?

Più che difficile, laboriosa è la ricostruzione storica. Se nel torrente della fantasia decido di inserire elementi storici, pretendo da me assoluto rigore filologico. Mi documento sulle fonti originali riguardo a tutto: politica, cultura, cronaca, televisione, radio, musica, pubblicità, economia… Tutto ciò richiede tempo, pazienza e tante (piacevoli) ore immerso fra vecchie pubblicazioni, dischi, film, fotografie.

 

E del rapporto con Editore ed Editor cosa puoi dirci?

Ho avuto la fortuna di conoscere professionisti sempre cordiali e collaborativi.

 

Hai progetti in fieri?

A maggio uscirà un altro thriller, Scommessa assassina (Giovane Holden Edizioni): indagine sulla morte di un anziano professore condotta da Soccodato mentre è in vacanza a Bellaria, in Romagna. Sullo sfondo, i Mondiali d’Inghilterra del 1966. Poi sto radunando materiale per una storia a metà tra spionaggio e giallo che si svolge a Gaeta nell’estate del 1972.

 

Se ti proponessero una sceneggiatura per un film? Saresti d’accordo o ritieni che i tuoi romanzi soffrirebbero nella trasposizione cinematografica?

Molti fra coloro che hanno letto i miei romanzi li giudicano adatti alla sceneggiatura di film o telefilm. Sono un fautore della carta stampata, senza dubbio, ma credo che le mie storie non perderebbero a trasformarsi in immagini. Certo, vorrei sempre poter dire la mia sulla ricostruzione (maniacale) delle atmosfere dell’epoca!

 

Quali libri compri? Hai un genere preferito o spazi a seconda del momento, dello stato d’animo?

Amo la letteratura giapponese, autori come Junichiro Tanizaki, Yasunari Kawabata, Yukio Mishima, Osamu Dazai, per citarne alcuni. I loro romanzi possiedono la lirica degli acquerelli orientali. Fra gli italiani i prediletti sono Giorgio Scerbanenco (per il genere noir), Pier Paolo Pasolini e Giuseppe Berto. Pasolini per il realismo elevato a poesia, Berto per lo psicologismo e l’introspezione condotta sul registro dell’autoironia. Godo volentieri pure la compagnia cartacea di Georges Simenon, Raymond Carver, Jim Thompson. Divoro saggi di storia contemporanea e di politica internazionale. Se un libro non mi piace lo abbandono, se lo apprezzo lo leggo anche otto volte.

 

Se devi regalare un libro come lo scegli?

Cerco di interpretare i gusti di chi riceve ma anche di proporgli qualcosa che possa incuriosirlo.

 

 Un consiglio ad un esordiente che non ha trovato ancora un editore?

Partecipare ai concorsi letterari per inediti, soprattutto quelli che prevedono fra i premi la pubblicazione del manoscritto.

 

C’è un autore che sia per te un benchmark. E perché?

Per il genere che scrivo, riconosco maestro assoluto Giorgio Scerbanenco. Ha saputo elevare il giallo italiano a un livello eguale e spesso superiore a quello dei classici americani, inglesi o francesi. Le dramatis personae di Scerbanenco non sono eroi e neppure antieroi, sono le maschere di tutti i giorni: il vicino, il barista, la commessa della Upim, il medico, la cassiera del cinema, la parrucchiera… e questo, insieme con una scrittura incisiva, limpida, priva di orpelli, permette a lettore di “entrare” nella storia, di sentirsene in qualche modo coprotagonista.

 

Quale suo libro consiglieresti ai nostri lettori?

I milanesi ammazzano al sabato.

 

Donaci una citazione e una ricetta.

“La serietà è la qualità di coloro che non ne hanno altre…”, lo ha detto Pasolini.

Quanto alla ricetta, da buongustaio “romano de Roma”, come il commissario Soccodato dei miei romanzi, suggerisco rigatoni con la “pajata”. Un piatto della cucina tradizionale romana che nasce nello storico rione di Testaccio, dove c’era il mattatoio, chiamato in romanesco “l’ammazzatora”. I lavoranti, che ricevevano in paga pure i cascami della macellazione tra cui le interiora (la pajata è l’intestino del vitellino da latte), hanno dato origine a questa pietanza dal gusto sapido e popolare.

 

Ingredienti per 4 persone:

½ kg di “pajata”

½ kg di rigatoni

750 ml di passata di pomodoro

1 cipolla

1 gambo di sedano

1 bicchiere di vino bianco secco (consiglio vino dei Castelli romani, che ha il sapore delle nostre terre vulcaniche)

olio extravergine (o 50 gr di lardo come vuole la tradizione)

formaggio pecorino romano, peperoncino e sale

 

Lavare la “pajata” accuratamente e tagliarla in pezzi di circa 20 cm.

Tritare la cipolla e il sedano e soffriggerli nell’olio. Aggiungere la “pajata” e lasciar cuocere 10 minuti. Unire il vino e lasciare sfumare.

Poi aggiungere la passata di pomodoro, sale  e peperoncino e lasciare cuocere a fuoco dolce per 2 ore.

Cuocere i rigatoni, scolarli al dente, condirli con il sugo e spolverarli con abbondante pecorino grattugiato.

 



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