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Oggi parliamo con… Leonardo Gori

Da Gialloecucina

L’ospite di oggi, Leonardo Gori, autore de “La città d’oro”. Leggiamo come si racconta nell’intervista realizzata da Alessandro Noseda

 

Intervista a Leonardo Gori a cura di Alessandro Noseda

 

Benvenuto a Giallo&Cucina. Un caffè? Un aperitivo?

Grazie per l’ospitalità. Meglio l’aperitivo: gradirei un analcolico, ma rosso sangue, mi raccomando.

Come di consueto, ti preghiamo di presentarti al pubblico. Chi è e perché scrive Leonardo Gori? Raccontati ai lettori.

Leonardo Gori è un autodidatta onnivoro che ha sempre vissuto nel mondo della Cultura Popolare, da entrambe le parti della barricata: come lettore, appassionato collezionista, saggista e poi autore… Scrivo perché è l’unica cosa che mi riesce fare abbastanza bene ma soprattutto perché mi piace moltissimo. Mi sento veramente vivo in poche occasioni: fra queste, quando sono alla tastiera del computer.

Quando e come ha avuto origine la tua passione per la lettura? E per la cucina?

La vera passione per la lettura, secondo me, nasce quando si impara a leggere; è difficile che scatti in seguito. A me è successo a cinque anni (come immagino a tantissimi altri), con quel Maestro plurigenerazionale che è stato il settimanale “Topolino”. I fumetti hanno anzi accompagnato tutta la mia vita. Sono sempre stato un lettore onnivoro, ma disordinato e incoerente, con grandi e avolte gravi lacune. Ho letto moltissimo anche saggistica, soprattutto Storia, antica e moderna, e Archeologia… Un saggio ben scritto è fonte di tantissime storie, che molto spesso finiscono nei miei romanzi. La Cucina mi fa sempre pensare a Rex Stout, a Nero Wolfe e a Fritz Branner… Non sono un gourmet, so a malapena friggere un uovo, ma apprezzo tantissimo quest’autentica forma d’arte.

“La città d’oro ”. Com’è nata l’idea?

“La Città d’Oro” è il terzo romanzo di un’ideale trilogia che comprende anche “Le Ossa di Dio” e “La città del Sole Nero”, entrambi usciti con Rizzoli. Il trait d’union è la figura di Niccolò Machiavelli, che ho interpretato in chiave thriller-noir. Ma al centro delle tre narrazioni c’è comunque la città amata-odiata di Firenze: luce e ombra, razionalità e caos… In più, in questo romanzo ho voluto sperimentare le strade dell’Avventura classica, qualcosa che ha a che fare coi miei amati fumetti, specie quelli classici americani degli anni Trenta… D’altra parte il mio buon capitano Bruno Arcieri, nei romanzi novecenteschi, porta il primo nome italiano di un eroe della carta stampata statunitesnse, ovvero Brick Bradford… L’”altrove” de “La Città d’Oro”, il mondo al di là dell’ultimo mare conosciuto, è la meta di un viaggio dettato dall’illusione di poter ritrovare noi stessi… Ma per quanto possa essere inatteso e sorprendente ciò che ci aspetta all’arrivo di un simile percorso, è davvero quello che speravamo di trovare? Come al solito, a questo tema ho mischiato un thriller classico, un romanzo d’amore, una speculazione politico-filosofica…

Ti sei ispirato a qualche persona reale per la caratterizzazione dei personaggi o è tutto frutto della tua fantasia?

Tutti i personaggi dei miei romanzi sono mosaici di persone che ho conosciuto, amato, a volte odiato: dei piccoli Frankenstein di cui solo io vedo la geografia interna… E poi c’è il mio lato oscuro, che distribuisco a fette fra i miei “cattivi”: per trovare gli abissi che servono al mio genere di scrittura, è utile guardare profondamente dentro noi stessi: il problema è che scavando troppo, possiamo trovare qualcosa che ci spaventa davvero. Ma è l’unco modo per suscitare emozioni. Comunicarle al lettore, poi, è la cosa più diffcile: quando riesce, è sempre un miracolo.

La storia si svolge essenzialmente intorno al 1500. Come ti sei documentato? Quanto lavoro d’archivio c’è dietro un thriller storico?

In tutti i miei romanzi, il lavoro di documentazione è essenziale. Ma lo è soprattutto per nutrire la mia immaginazione, per suscitare fantasie basate sui dati reali, per smuovere le mie emozioni… Se il lavoro di documentazione porta poi a un risultato che soddisfa anche i cultori della Storia, o meglio che non li delude troppo, è un risultato incidentale, un valore aggiunto. Fare il topo di biblioteca è per me un godimeto di per sé, serve ad accendere il motore… Per “La Città d’Oro”, comunque, benché alla base ci siano approfindite letture sui primi anni del Nuovo Mondo, ho lasciato più aperto del solito il rubinetto della fantasia pura…

Quali sono state le maggiori difficoltà incontrate nella stesura della romanzo?

La scrittura, la lingua, lo stile. Il lavoro di riscrittura. Stavolta ho cercato, con l’aiuto di una straordinaria editor, Chiara Belliti, di trasformare la mia scrittura, di esplorare strade nuove.

A chi e perché consiglieresti la lettura del tuo libro? E a chi suggeriresti di lasciare perdere?

Consiglio “La Città d’Oro” a che ha voglia di perdersi in oltre trecento pagine di deliri quasi lisergici, di alternanze tra realismo e sogno, con qualche punta di violenza estrema… Non certo a chi cerca una tranquilla indagine poliziesca. Non è affatto un romanzo tranquillizzante.

Cosa puoi raccontarci a proposito della tua esperienza editoriale?

Ho pubblicato con almeno tre editori, e in tutti i casi ho trovato ottime persone, attente in egual modo sia alla qualità dei romanzi che avevano in cura che agli aspetti commerciali, promozionali. E’ d’altronde vero che i problemi non mancano mai, perché il mondo editoriale è una catena di persone, di uffici, di idee spesso contrastanti e un anello debole si trova spesso. Può essere la distribuzione, nel caso degli editori meno grandi, oppure l’elefantiasi delle strutture interne, nel caso di quelli più grandi… In Giunti sono stato accolto, per “La Città d’Oro”, da editor e altre figure di riferimento che mi hanno comunicato immediatamente tranquillità, sicurezza, grande professionalità ma anche sensibilità culturale e umana. E’ stata l’esperienza in tutti i sensi migliore.

Che tipo di lettore sei? Ci sono degli autori ai quali ti ispiri o che rappresentano per te un modello di riferimento?

Ho già risposto, in parte, a questa domanda: sono un lettore atipico e disordinato. Ma nel campo della “narrativa di tensione”, i miei riferimenti principali sono i grandissimi maestri del thriller anglosassone:  Ken Follett, soprattutto il primo, quello del “Codice Rebecca”, capace di unire maestria per l’intreccio, magia per i colpi di scena e approfondimento psicologico, e soprattutto il grandissimo John Le Carrè, i cui romanzi sono un’autentica epopea, quella della Guerra Fredda, fornace di uomini e di anime… E non posso evitare di citare Georges Simenon, che probabilmente è il maestro di gran parte, se non tutti, gli scrittori italiani di “tensione”.  Ma i miei colleghi conterranei non li cito, per amicizia, opportunità e un po’ di vigliaccheria…

Hai altri progetti letterari in cantiere? Ci puoi anticipare qualcosa?

Il prossimo romanzo è sempre il più importante. Ma tutto è ancora nella dimensione pre-natale, e quindi è bene non parlarne.

A tua scelta: lasciaci con una citazione o con una ricetta!

“Il giorno che diventò grande, sparì.” (R. Vecchioni)



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