Invitato a partecipare all’evento “Siria I Care”, il buon senso ne ha imposto l’adesione.
Ma i motivi esondano dalla penosa questione di quel paese e dalla tragica situazione di molti dei suoi ragazzi. Anche di quelli morti per la guerra civile ( come se mai, dall’avvento dei primi popoli organizzati fosse esistita una guerra “incivile”) in atto in quella terra da oltre un anno.
Era il 1977 quando nelle piazze della mia città sfilava e sfilavo scandendo slogan contro la Cambogia di Pol Pot, la cui vicenda qui non riporto perché la considero al pari delle vicende naziste un altro patrimonio dell’umanità. Ricordo soltanto che quel signore all’epoca provvide ad uccidere (così oramai riportano le fonti storiche di ogni credo e religione) circa 1 milione e mezzo di persone (circa 1/3 dell’allora popolazione del paese) senza distinzione alcuna di sesso od età. Ero sufficientemente giovane allora per avere il coraggio di sfidare l’indifferenza assoluta di ci chi ci guardava e ci ascoltava, spesso indicandoci come strada migliore quella di un buon lavoro, magari dedicato alla terra, non tanto perché fossimo ancora una nazione dedita all’agricoltura ma, al contrario, essendo un popolo che stava cercando di evolversi anche strutturalmente e che pertanto fuggiva dalla fastidiosa campagna per creare una “civiltà industriale”, oltre che “occidentale”.
Ebbene, nel 2008, una rispettabilissima ed accreditata organizzazione “Save the Children” (così come d’altronde molte altre, parimente degne e meritevoli) in occasione della Giornata Mondiale dell’Infanzia presentò una lettera da parte di 31 Premi Nobel per la Pace, ove si richiedeva, come di consueto “ai leaders del mondo” (http://www.savethechildren.it/IT/Tool/Press/Single?id_press=188&year=2008) un certo tipo di intervento al fine di “garantire istruzione di qualità e scuola a milioni di bambini, contribuendo così a ridurre l’impatto delle guerre sui minori e a ricostruire la pace in paesi colpiti o reduci da conflitti armati” (cit.).
Si specificava nell’occasione che: “Negli ultimi 15 anni, l’80% delle vittime civili delle guerre sono stati donne e bambini. Almeno 2 milioni di bambini sono morti uccisi dal fuoco delle armi e 6 milioni sono stati feriti, resi disabili o hanno subito traumi psicologici, obbligati ad assistere a terribili atti ed episodi di abusi e violenze. Si stimano in 22 milioni i minori profughi e sfollati a seguito di guerre. Le cui conseguenze vanno oltre la fine delle ostilità: si calcola che ogni anno siano tra 8.000 e 10.000 le giovani vittime di ordigni esplosivi, in particolare delle mine rimaste sul terreno. E sono almeno 250.000 i minori – di cui il 40% bambine – impiegati in 17 conflitti armati come soldati, spie, facchini, cuochi, “mogli dei combattenti (nel caso delle ragazze) e arruolati in eserciti non governativi in almeno 24 nazioni e territori. A causa della guerra 37 milioni i bambini e le bambine sono oggi esclusi dall’istruzione” (cit.).
Le considerazioni e, ad esse connesse, le domande che mi pongo partendo da quel lontano 1977, non sono poche:
- Nel 1977 ci consideravamo in ogni caso una società molto evoluta che, seppur dimentica di quanto era stato in grado di fare pochi decenni prima, aveva in persone come me, l’ardire che non era solo politico, ma anche morale e sociale, di condannare quello che credevamo fosse un male lontano o comunque appartenente oramai a culture diverse dalla nostra.
- Nell’iniziativa di Save the Children (encomiabilissima ci mancherebbe altro, così come lo è la giornata di oggi “Siria i Care”!!!), mi si indicava che in 15 anni, ovvero dal solo 1993 al 2008, almeno 2 milioni di bambini erano morti per cause belliche , ecc. ecc.
- L’iniziativa di formulare una lettera aperta da eminenze grigie ad altrettante eminenze nasceva con l’obiettivo di garantire COMUNQUE istruzione e futuro a bambini in zone di guerra. Come se ciò che potesse essere migliorato era l’ambiente durante una guerra da considerarsi a questo punto una costante condizione con la quale doversi confrontare.
- Al rapporto di Save the Children vanno aggiunte le vittime dal 1977 al 1992 che, seppur unicamente in virtù di una fallacissima ipotesi proporzionale quantifichiamo, essendo gli stessi altri 16 anni, in altrettanti 2 milioni di sacrificati che, unitamente agli altri, raggiungono la cifra di 4 milioni (eventi bellici dal 1977 al 1993, ancorché più difficilmente documentabili, non mancano certo in nessun angolo del globo. Faccia da esempio l’ininterrotto conflitto in zona medio-orientale, che coinvolse, anzi potremmo dire coinvolge, Libano, Palestina, Israele, Egitto, per non citare poi la guerra civile in Mozambico e l’invasione sovietica in Afghanistan che da sole sono state responsabili di oltre un quarto del totale dei morti, vedi http://cronologia.leonardo.it/storia/tabello/tabe25c.htm, o le infinite altre fonti che più vi possono risultare attendibili).
In pratica, da quella società che era in odor di progresso industriale e tecnologico nell’antico 1977 si è sostituita oggi una società industrializzata, tecnologica, globale perfino, che ha saputo unicamente, rispetto al problema che stiamo trattando, darci la possibilità di conoscere le cose in tempo reale.
Non me ne vogliano i bambini siriani, soprattutto i vivi. Ma quando leggo, come stamani mattina ad esempio, sul sito di una agenzia di stampa internazionale: “ …Una città divisa in due, tra la zona controllata dai ribelli e quella in mano ai governativi, tra le quali infuriano i combattimenti ed e' pericolosissimo spostarsi. I prezzi dei generi alimentari in continuo aumento, alcune merci disponibili solo sul mercato nero. Il sistema sanitario a rischio paralisi, mentre scarseggiano le medicine.
Scuole ferme, e volontari che organizzano lezioni e giochi per bambini. Mentre le reti della solidarietà locale cercano di provvedere alla popolazione rimasta …” (http://www.ansamed.it/ansamed/it/notizie/rubriche/politica/2012/11/09/Siria-dramma-Aleppo-citta-devastata-divisa_7769541.html), credo che potrei dare a quella città di cui si parla il nome di mille e mille città. Ai volti di quegli adolescenti che oggi vivono nel terrore, il volto dei milioni che non ci sono più o che oggi, stanno ancora subendo le conseguenze di analoghi conflitti.
Non voglio togliere loro l’amara luce della ribalta. Il rispetto loro dovuto è unico e pari a quello di tutti gli altri. Anzi, vorrei di loro farne un simbolo. Idea non nuova in verità. Ma l’auspicio è che si smetta di curare la malattia quando potremmo adoprarci molto di più per prevenirla.
Addirittura mi sembra, portandoli forzatamente a queste ribalte, quasi di prenderli in giro. Sapendo che domani forse qualcuno di loro per questo conflitto morirà e, più che altro, che non saranno gli ultimi. Saranno, questo è certo, morti invano. Mancheranno alle loro famiglie invano, non giocheranno invano. Non studieranno invano.
Era il 1977 allora e da allora ho visto tante e tante ondate di questo sdegno infrangersi contro l’abitudine. L’abitudine anche a manifestare, a partecipare, per un giorno, a queste iniziative, salvo poi, scordarsi di tutto il giorno successivo. Scordarsene con la coscienza tranquilla ed appagata.
Mi si risponderà che per poco che possano fare queste iniziative comunque servono a discutere, ad approfondire il problema. Vero, forse. Sotto i miei occhi da quel 1977 sono passate milioni di iniziative alle quali era sufficiente cambiare il colore nella grafica per distinguerle ed insieme ad esse milioni di bambini morti e poi quelli reduci. Molti dei quali oggi, avendo appreso la lezione dell’odio da piccoli, covando un risentimento difficilmente comprensibile da chi vive nella tranquillità, sono adulti, con un fucile in mano a fare ciò che da piccoli hanno appreso. E noi lo stesso. Abbiamo appreso che quando queste cose accadono, si fanno i girotondi, si scrivono le lettere ai bambini sfortunati, si manifesta in piazza, si fanno i convegni con i rifugiati, si mostra loro una sentita e partecipata solidarietà. Qualche volta, se si può, si manda un piccolo aiuto. E dietro si fanno gli scongiuri affinché ciò non ci accada. I nostri governi, quelli che ordinano le missioni di pace così come i raid in Libia o in Irak, coloro cioè che decidono cosa, come e quando debba essere interrotto un conflitto, hanno deciso che in Siria, oggi si può continuare così, come in Palestina e in tutti gli altri paesi dove regna la guerra civile. Beninteso è un conflitto che non turba i nostri interessi se non addirittura li favorisce, perché altrimenti l’intervento sarebbe stato immediato (Libia docet). I pacificatori del mondo. Ma in Siria non c’è niente di così appetibile e può bastare, per il momento, la guardia del mastino turco. Non occorre vergognarsi di questo. Come si dice: “sono i politici che hanno …”. Tuttavia oggi, è impossibile credere e pensare di non aver scelto. Questo è forse il primo regalo della globalizzazione: ci impedisce oramai di non scegliere, fornendoci di fatto tutti gli elementi informativi per farlo. Certo essere nati a Roma e non a Damasco può determinare la nostra capacità di scelta perché l’ambiente che ci circonda è diverso. A Roma, per fortuna le guerre si vedono in Tv. Almeno quelle fatte con i fucili. Se ne sta sperimentando di nuove invece fatte con la carta moneta ma questa è un’altra storia. A Roma vengono quelli di Damasco e non viceversa.
Negli ultimi trentacinque anni mi sono passati sotto gli occhi 4 milioni di bambini morti per cause belliche. Ai quali vanno aggiunti tutti quelli morti per altre pesti che non ci interessa estirpare come la fame, la sete, le malattie conosciute.
Ho smesso da molto tempo di andare alle manifestazioni. Manifesto in altro modo il mio dissenso e non perché preferisca farlo sulla rete senza muovermi da casa. Faccio, intervengo dove posso e osservo questi oceani di indignazioni passeggere che se ne vanno via così come sono nate. Ben tollerate ed anzi, patrocinate dai governanti che a loro volta, nel ciclo della vita, da piccoli avevano scritto a scuola la letterina a qualche coetaneo dall’altro capo del mondo (e forse non proprio così lontano .. basterebbero 3 ore d’aereo in fondo) ed oggi lo fanno fare ai propri figli, dopo aver firmato un intervento di peacekeeping (così ci piace in questo anglobalizzato mondo) o una inutilissima nota di protesta dalla Farnesina che i media riporteranno spacciandola per la risposta di un paese e che tutti plaudiremo come un atto di coraggio e non come il puro e semplice punto di partenza per fare qualcosa.
Dal 1977 dovrebbe essere cambiato il modo di rispondere o di intervenire di fronte a queste cose. E invece no. Si manifestava in piazza allora, un poco rozzamente devo dire e poco di più si fa oggi. I bimbi continuano a morire in guerra. Non hanno più nome, né razza, né colore. Ne veniamo a conoscenza prima di allora, questa, in fondo, l’unica differenza.
La coscienza è rimasta la solita. L‘interesse lo stesso.
Resto allibito come prima. Non della morte dei bambini. Ma per quanto non si è fatto per evitare che potesse continuare a succedere e per quanto invece si crede di fare. Che è pochissima cosa. Anche se, certo .. meglio che niente.
E i bambini siriani sopravvissuti oggi possono ringraziare noi tutti, come tutti i bambini sopravvissuti di tutti i paesi possono fare altrettanto. Ringraziarli per la vita che hanno fatto, per la guerra di oggi, per ciò che sarà domani. E dopodomani saranno loro ad essere ringraziati dai propri figli.
Ho smesso da molto tempo di andare alle manifestazioni. Manifesto in altro modo il mio dissenso. Cerco di richiamare cose che a nessuno sembrano interessare. Non grido più per i diritti offesi ma per i doveri mancati.
Non farò niente di speciale oggi non ve ne è bisogno. Come tutti i giorni è un giorno speciale. Buono per vivere o per morire. Buono per decidere se essere esseri pensanti e coscienti o essere solo uomini così come racconta la storia.
Uno dei miei vicini di casa, Amhed, è siriano. La sua famiglia (moglie e una figlia venute qui da noi per un breve soggiorno l’anno scorso) abita nei dintorni di Aleppo. Non parla molto. Viaggia tra il suo paese, Turchia e Germania per il suo lavoro di rappresentante. Non ha portato via la sua famiglia. Si ostina a non perdere i rapporti con il suo paese. La sua casa qui è un via vai di amici e conoscenti che vengono a trovarlo ogni volta che torna dai suoi viaggi portando notizie. E’ molto riservato. Gli ho chiesto qualcosa più volte. Anche pochi giorni fa. Continua a scuotere la testa. Mi sorride e dice: inshallah.
Un grazie a Sabrina Ancarola, una delle promotrici di questa giornata, che ha avuto il coraggio di invitarmi. #SiriaICare