Ogni cosa è illuminata, lavoro d’esordio di Jonathan Safran Foer, racchiude in sé due romanzi.
Il primo (Ogni cosa è illuminata) è una storia on the road attraverso l’Ucraina sulle tracce dello sperduto villaggio ebraico chiamato Trachimbrod, le cui fortune sono raccontate nella seconda storia (La fine del mondo giunge spesso).
Ogni cosa è illuminata – Verso la fine degli anni 90 Jonathan si reca in Ucraina per mettersi sulle tracce di Augustyne, la donna che salvò suo nonno Safran durante la distruzione della comunità ebraica di Trachimbrod. Si rivolge quindi alla Viaggi Tradizione, agenzia viaggi della famiglia del giovane Alex Perchov e comincia quindi un viaggio da Odessa verso Trachimbrod in compagnia del nonno di Alex, che fa da autista, e dalla mascotte Sammy Davis Junior Junior, una cagnetta malata di mente. Alex è quasi coetaneo di Jon-Fen (pronuncia a metà strada tra inglese, ucraino e russo di Jonathan) e inoltre coltiva il sogno di andare a fare il commercialista negli Stati Uniti D’America per cui prenderà poco a poco di buon grado la presenza di questo strano ebreo americano.
La fine del mondo giunge spesso – Nel 1791 un carro si rovescia nel fiume Brod, in prossimità di una popolosa comunità ebraica. Unica superstite sarà una neonata che in realtà è la bis-bis-bis-bis-bis-nonna di Jonathan. Ne nasce una vicenda familiare che lo stesso Jonathan ricostruisce dal settecento fino al 1944 quando il villaggio, denominato Trachimbrod, viene distrutto dai nazisti.
Il romanzo è costruito in modo molto avvincente anche se leggermente contorto, i fatti della storia di Alex e Jon-Fen sono raccontati dallo stesso Alex in lettere che invia all’amico americano al termine della molto rigida ricerca (come la definisce lui); lettere a cui acclude pezzi di un racconto che il giovane ucraino sta scrivendo sull’onda lunga dell’amicizia nata durante il viaggio. Contemporaneamente Jonathan invia all’amico stralci del suo di romanzo (La fine del mondo giunge spesso) in cui racconta la nascita di Trachimbrod e le vicende che hanno visto come protagonisti i suoi antenati.
Tra i due ragazzi nasce un’amicizia profonda capace di razionalizzare e annullare le differenze etniche e culturali che, anzi, rappresentano da un certo punto la chiave di lettura per comprendere le complesse personalità di Alex e Jonathan.
Elijah Wood e Eugene Hutz ovvero Jonathan e Alex nel film di Leiv Schreiber ispirato dal libro
Il tutto sembrerebbe parecchio complicato per il lettore, e di fatto lo è, anzi, a peggiorare le cose ci si mette anche il linguaggio poiché anche se Alex si presenta come interprete, è lui stesso che dice di non essere di prima classe con l’inglese, conseguentemente ne risulta una lingua confusa che la traduzione ulteriore dall’inglese all’italiano rende ancor meno comprensibile; Inoltre la storia della famiglia di Jonathan comporta una conoscenza delle basi del linguaggio e della cultura ebraica per capire non solo alcuni appellativi ma anche alcuni passaggi della trama che non sono proprio immediati.
Tutta questa fatica viene però ripagata dalla trama a tratti commovente e ironica: in alcuni passaggi Alex fa davvero morire dalle risate con la sua incredulità di fronte ad alcune stranezze dell’amico Jon-Fen mentre in altre ha una visione parecchio lucida dei disastri che nazisti e sovietici hanno fatto al suo paese e alla sua gente da rasentare la saggezza.
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