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Dalle sabbie del tempo, ma nemmeno troppo, in fondo parliamo del 1992, fa capolino questo piccolo film diretto dalla polacca Agnieszka Holland, autrice non molto conosciuta sebbene parecchie opere da lei dirette siano state distribuite anche in Italia e nonostante la recitazione alle sue dipendenze di attori come DiCaprio, Ed Harris e Jennifer Jason Leigh.
Una storia come quella di Olivier, Olivier può essere facilmente distinta in momenti, e nello specifico ne troviamo 3. Il primo mostra con chiarezza espositiva le dinamiche e le personalità famigliari (madre benevola, padre nervoso e fratellini complici) rimanendo lineare e lontano dal clamore. Il secondo propone il momento di stacco, di salto: Olivier scompare come un fantasma, ed ecco che i meccanismi del focolare iniziano a incepparsi, la sedia vuota durante la cena è l’immagine dolente di una famiglia a pezzi.
Fino a qui parliamo solo di premesse poiché lo svolgimento vero e proprio arriva con il terzo momento nel quale rientra in scena il bimbo diventato ragazzino che forse non è nemmeno più lui.
È evidente che alla Holland non interessa far venire a galla quegli anni di buio visivo che segnano l’adolescenza del protagonista, in sostanza che cosa abbia fatto e che cosa sia diventato Olivier passa in secondo piano rispetto al macro-argomento già ben ben distillato nelle prime due frazioni, ossia una disamina sui quanto mai precari vincoli consanguinei destabilizzati da un tragico evento.
In questa terza frazione la regista effettua uno sfondamento concettuale necessario a dare nerbo e specificazione ad una storia che altrimenti sarebbe simile a molte altre per colpa, anche, di situazioni purtroppo rintracciabili nella nostra quotidianità. Allora tale distinzione si attua all’interno di un doppio processo intrecciato: quello dell’ambiguità e della morbosità. Sullo sfondo di una famiglia che come detto perde progressivamente il suo equilibrio, viene gettato abbastanza efficacemente il seme del dubbio in relazione alla figura del “nuovo” Olivier suggerendo che potrebbe non essere lui quello che una volta era quel bambino col cappellino rosso, e a ciò si lega la profanazione del tabù dell’incesto che rafforza una sottile sensazione di disorientamento.
Sottile perché l’attrazione/repulsione tra i due fratelli non viene particolarmente esibita, e perché la pellicola nell’ultima mezz’ora vira in altri territori che si distaccano dalla materialità finora narrata. Un avvertimento, un po’ bislacco a dir la verità, ci viene suggerito con i poteri paranormali di Nadine, ma è quando viene manifestata la perpetuazione della violenza attraverso il tempo che l’opera trascende trovando nel titolo una possibile chiave interpretativa: ci sono due Olivier, uno non è mai uscito dalla cantina del pedofilo, l’altro è vissuto nel cuore di chi gli voleva bene.
Recuperabile, per la serie “non è un capolavoro ma…”, e poi tutti gli attori sono molto convincenti (la fragile tempra della madre sopra tutto) e rendono palpabili le emozioni riversate sullo schermo.
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