Ostracizzato lo è sicuramente, Oliviero Beha. Nel corso della sua trentennale carriera questo giornalista dalle buone letture è stato allontanato coattivamente dal video, dalla radio, dalla carta stampata, in un pervicace respingimento che ha del fascino per la sua sistematica multimedialità. Non che l'arroganza e l'egolatria di Beha non abbiano giocato un ruolo determinante (valga per tutti il giudizio tranchant di Aldo Grasso: "Beha è sempre stato considerato un antipatico del video"), se è vero che l'ex Zorro radiofonico ha intentato cause giuridiche a quasi tutti i suoi datori di lavoro, tanto che è lui stesso a farsi scherno di questo suo continuo pellegrinaggio nei tribunali di tutta Italia. Il vitalismo battagliero che lo contraddistingue lavorativamente, mutatis mutandis, è riconoscibile anche nella sua prolifica attività letteraria. Oltre che di classici pamphlet giornalistici Beha è autore di poesie, saggi e narrativa. Sono stato io (Marco Tropea Editore, 2004) è stato il suo primo romanzo e ne testimonia l'ibridismo.
Il libro è un romanzo autobiografico con venature esistenzialiste attraversato da un moralismo deciso. I continui didascalismi sullo sfascio etico del nostro Paese non spezzano il ritmo, ma diventano essi stessi la vera ed unica trama del racconto. Volendo utilizzare una metafora ricorrente nel libro, lo stesso Beha propende per l'accumulo di tessere, non sempre particolareggiate né particolari, che dovrebbero mostrare il disegno sottostante il mosaico. Encomiabile come da un pensiero che continuamente si arrovella sulla sua forma fuoriesca il migliore dei riassunti su questo modo di intendere la scrittura e la vita: "E questo suo modo disordinato, inconsulto, di pensare alle cose tutte insieme, che era poi l'altra faccia del suo fare più cose tutte insieme, come se dedicarsi a una sola fosse riduttivo, e gli restringesse il mondo? O non piuttosto un modo che gli facesse da alibi per non impegnarsi in una cosa, e una sola, per volta?".
Il mosaico è comunque tracciato ed è l'evidente perdita morale nel campo della cultura, della politica e della società. A differenza dei cronisti militarmente schierati, sia politicamente che ideologicamente, per l'autore la situazione dei primi anni del nuovo millennio era solo parzialmente imputabile a Silvio Berlusconi. Sono stato io sviluppa allora proprio questo spunto: eliminando metaforicamente il miglior premier che l'Italia abbia mai avuto dalla sua unità ( ipse dixit), il Paese risalirebbe la china? La risposta di Beha nel 2004 era "no", un responso che, al netto dei partigiani renziani, oggi possiamo solo confermare. I mali atavici del bel paese si trascinano in un'ombrosa ciclicità di uno sconfortante eterno ritorno nietzscheano e le belle stagioni culturali hanno avuto la tiepidezza di un sole d'inverno.
La tesi di fondo, abbastanza illuminata e facilmente condivisibile, è però raccontata unicamente dal punto di vista del giornalista protagonista. E questo inficia l'oggettività di un racconto che pure si sforza di esserlo, come testimonia ad esempio l'uso della terza persona in un romanzo dal taglio prettamente diaristico o le continue domande che vorrebbero stimolare la riflessione (mentre in realtà la paralizzano, visto che sono domande retoriche). L'esigenza di accordare due direzioni che vanno in parallelo senza poter pervenire per loro natura ad un punto d'incontro (se non all'infinito e quindi impossibile nelle 224 pagine del libro) sfilaccia il possibile ordito in un insieme caotico di annotazioni personalistiche e rievocazioni dei passati scoop buttati a casaccio.
Peraltro, Beha mantiene sempre la frusta di Zorro alta e mena fendenti anche a distanza di anni ai suoi detrattori, come quelli riservati a Bocca, Scalfari e al salotto buono della sinistra italiana. Si ha la perenne sensazione che l'autore condanni tutti e in fondo assolva sé stesso annacquando le sue colpe nel fare "il filosofo da osteria" super partes, vuoi per scelta apolitica, vuoi perché la sua intelligenza gli permette di squadernare con invidiabile razionalità i vizi italici. La società dei consumi segue l'egida del vile danaro ma il giornalista protagonista non si piega mai e anzi sa trovare oasi di pensiero critico, esaltate per la sua affinità a sé stesso. Si veda una delle poche note buoniste riservate agli studenti dell'università dove insegnava che lo ascoltavano non perché fosse un "un nome noto radiotelevisivo, un costanzino, un santorino" bensì perché fossero entusiasti del suo insegnamento di legittima difesa comunicativa verso i mass-media.
Anche lo stile letterario in cui Sono stato io risente dell'ostentata brillantezza di Beha. Nel corso della mia vita da lettore non avevo mai affrontato prima un sistema delle apposizioni così contorto e insistito. Al netto di tutte queste critiche Sono stato io riesce per larghi tratti nel suo intento principale: evidenziare le purulente cisti della società che una deberlusconizzazione puramente fisica non può sanare. Alle insistite riprese aeree sulle "macerie soprattutto culturali di un Paese che sta regredendo", Beha contrappone però una robusta carrellata sui molti personaggi che a loro modo riconoscono il disastro e lo combattono. Gli esempi di riscossa civica si insinuano così surrettiziamente ma abbastanza chiaramente fino al coinciso finale. Il protagonista non riuscirà ad uccidere metaforicamente l'ex Cavaliere poiché questa possibilità gli sarà negata dalla manovra di un maldestro cameriere che, molto più italianamente, gli imbratterà il retro del vestito di torta. Come Beha aveva intuito sarebbe stato il senso del ridicolo a togliere dalla scena Berlusconi. Ma l'Italia è ancora ferma, chi ammazzerà i suoi mali ancora così vivi?