Olocausto animale? Che storia…

Creato il 09 luglio 2012 da Alphaville

Dal blog Asinus Novus, una mia riflessione su Olocausto e olocausto animale.

Provo sempre un certo imbarazzo di fronte alla posizione dell’Olocausto come “discrimen epocale” — rubo l’espressione alla filosofa Caterina Resta: vengo da una generazione per la quale l’Olocausto, che non era neppure noto con questo nome (il termine era impiegato negli ambienti specialistici ebraici di lingua inglese, e avrebbe cominciato a diffondersi presso il grande pubblico sul finire degli anni Settanta del secolo scorso), era uno dei molti orrori della guerra al pari dell’atomica su Hiroshima e Nagasaki, dei bombardamenti tedeschi su Coventry e di quelli alleati su Milano Napoli e Dresda, dell’esodo delle popolazioni tedesche dalle province orientali e dell’assedio di Stalingrado, della ritirata dell’ARMIR e della guerra civile in Italia eccetera.

Il fatto di essere ancora parzialmente a ridosso della seconda guerra mondiale — i nostri padri, i nostri zii e i nostri nonni vi avevano in qualche modo, da una parte o dall’altra, partecipato — ci permetteva di considerare quegli eventi non attraverso la lente deformante del mito o dell’ideologia, bensì attraverso le parole dei protagonisti: racconti, narrazioni, memorie come monumenti di un passato prossimo che aveva inciso la sua essenza nella carne e nel sangue delle generazioni che ci avevano immediatamente preceduto.

Ma anche altri drammi del XX secolo, breve ma denso quant’altri mai, segnavano le nostre vite: la mia insegnante di musica alle medie era una concertista ebrea romena, la cui famiglia era fuggita dalla Romania in seguito ai pogrom degli anni Quaranta, e il mio professore di pianoforte (suo marito) era un ebreo italiano la cui famiglia aveva lasciato l’Italia in seguito alle leggi razziali del 1938. Una mia compagna di scuola apparteneva a una famiglia di armeni scampati al genocidio del 1915. Dei vicini di casa erano profughi istriani che avevano abbandonato la loro terra alla metà degli anni Cinquanta.

Eravamo circondati da violenze alle quali non sapevamo dare altro nome o altra giustificazione che non fosse “guerra”: e la guerra era guerra per tutti, senza copyright o graduatorie fra vittime di serie A o di serie B. [continua qui]


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