Oltre gli stereotipi
Di Marco Crestani
Libereditor’s Blog ha intervistato Giovanni Nebuloni, scrittore intelligente dalla vivida immaginazione e dalla prosa cinematografica elettrizzante.
Di lui ci ha colpito l’uso originale del dialogo frapposto all’azione, le sperimentazioni linguistico-narrative e la vibrante ricerca spirituale del divino.
Giovanni Nebuloni ha da poco pubblicato il suo quarto romanzo (che potete trovare qui) e ci ha gentilmente concesso quest’intervista.
(L.B.): Dopo “La polvere eterna”, “Il disco di Nebra” e “Fiume di luce”, è uscito da poco tempo “Dio a perdere”, il suo quarto romanzo pubblicato.
Se dovesse scegliere un termine o un aggettivo per descrivere questo suo ultimo libro quale utilizzerebbe? E perché?
(G.N.): Sarebbe “nuovo”, per l’attuale letteratura e non soltanto italiana.
Nei miei romanzi c’è un respiro internazionale proprio del villaggio globale. Vado decisamente oltre gli stereotipi, le ricorrenti classificazioni di moda, per esempio “garbato” e “brillante”, in quanto la vita non sempre è cortese o vivace e spigliata. Esistono Marcel Proust, Thomas Mann o Italo Calvino, ma anche, allo stesso livello come “scultore” del mondo, Dashiell Hammett, Raymond Chandler, Lawrence Durrell, Henry Miller o Charles Bukowski.
Intendo la letteratura assimilabile alla scultura: il materiale c’è già, presente nell’autore, il quale deve dare soltanto una forma al blocco di marmo che a una prima scorsa è il suo essere.
Il mio stile è personalissimo. Con riferimenti alla pittura, la mia scrittura è più espressionista che impressionista. Cerca anche di avvicinare la letteratura al linguaggio cinematografico e vorrei che per il lettore la pagina diventasse “una videata da leggere” – non solo mediante dispositivi digitali –, uno “schermo di carta” che però si possa piegare fisicamente.
Le mie storie sono sempre nuove e il messaggio non è mai banale. Non parlano della trita, desueta condizione della donna o, perché no, dell’uomo, del solito serial killer variamente mascherato, di uno stucchevole rapporto fra persone, del drago e delle ninfe. Le innovazioni stilistiche, ponderate e in costante evoluzione, sono numerose: dalla forma dei dialoghi – a volte spontanea, senza interventi da parte mia, proprio come avviene in un film –, alle descrizioni scorrevolissime, all’assenza di time-out o pesi morti.
Negli ultimi dieci anni, il mio unico punto di riferimento è stato Michael Crichton, fino al romanzo “Preda”.
Nel presente, guardo al futuro prossimo e personalmente vi sono già immerso. Credo che nell’era dell’immagine, le narrazioni molto estese, i “mattoni”, non abbiano più senso. L’autore conosce vita, morte e miracoli dei suoi personaggi e devono bastare poche righe per descrivere il vissuto di un personaggio. Non si deve tediare e depistare il lettore. Come in un film, il personaggio si delinea anche attraverso le sue parole. La mia scrittura è il risultato di azioni di sintesi ed è il futuro imminente – per me realtà già attuale – della letteratura.
(L.B.): Quanto è stato difficile scrivere una storia così particolare come “Dio a perdere”? Che cosa lo ha spinto a scriverlo?
(G.N.): Potrei rispondere che per me la difficoltà non è scrivere, quanto invece farsi conoscere per ciò che si è.
Comunque, l’espressione per me meno immediata del lavoro di romanziere è la resa dei personaggi, che devono essere “ripresi” come da una telecamera, un mezzo che s’addentra però anche nell’interiorità, dentro la psiche. Cosa d’altro canto difficile da rendere nel cinema, se non con tecniche particolari e questo è un vantaggio della letteratura rispetto al film. Nei miei personaggi, cerco di immedesimarmi, come fa un attore alla Strasberg o Stanislavskij con le parole del copione. Da questo punto di vista credo d’essere un buon attore, ma anche uno sceneggiatore e un regista. Nella pagina scritta o sullo schermo scritto, cioè, si può paragonare l’attore allo stile della scrittura e lo sceneggiatore e il regista alla trama.
Ho avuto l’idea di “Dio a perdere” semplicemente osservando ciò che si può visitare della grotta di Lascaux.
(L.B.): Parlando di lei come scrittore quando e perché ha iniziato a scrivere?
(G.N.): Io non sono uno “scrittore”, non ancora, almeno. Scrittore è colui che riesce a manifestare un mondo a sé stante, che esiste di per sé. Lo scrittore è una persona che ha un’esaustiva visione del mondo accettata universalmente. In Italia, nei giorni nostri non ci sono scrittori in questo senso, cioè scrittori come coloro che ho nominato o tanti altri: Yukio Mishima, Gide, Hemingway, Sciascia, Deledda, Quasimodo, Montale, Faulkner, Steinbeck, Bellow, Joseph Roth o Philip Roth, Norman Mailer, Capote, Dostojevskji, eccetera.
Io mi definisco un romanziere e, forse con apparente contraddizione nei termini, mi ritengo “un artista artigiano”.
Ho iniziato a scrivere a diciassette anni perché credevo, credo ancora, d’avere qualche storia da raccontare. Perché vorrei dare qualcosa agli altri e anche per scoprire qualcosa: sono il solo esponente della “fact-finding writing”, la scrittura conoscitiva. Questa corrente letteraria, in due parole, considera che in modo documentabile e magari riproducibile non scopriremo mai la risposta alla domanda “perché siamo qui su questa terra?”. Non ha risposto la filosofia e non risponderà la fisica, la matematica o altre scienze e io credo che un piccolo tassello potrà fornirlo la letteratura. Come fece Edgar Allan Poe il quale, senza disporre di un radio telescopio e del back-ground odierno, scoprì perché il cielo notturno è nero.
(L.B.): Che cosa secondo lei rende una grande storia?
(G.N.): La novità, appunto.
(L.B.): In una giornata quanto tempo dedica di solito alla scrittura?
(G.N.): Negli ultimi dieci anni, una media di sei ore al giorno.
(L.B.): In questo momento ha in cantiere qualcos’altro? Magari un nuovo romanzo?
(G.N.): Due romanzi. Ne sto ultimando un altro, ne ho iniziato un altro ancora e le storie, i messaggi sono sempre nuovi e diversi.