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Oltre il bosco dei cento acri

Creato il 17 settembre 2021 da Annalife @Annalisa
Oltre bosco cento acriNon solo Winnie Pooh

Ho cercato sempre, in modi diversi, di tenere nota dei libri che leggo: mi piacerebbe essere costante e inserire via via titoli, autori, brevi osservazioni. Qualche anno fa acquistai, sulle bancarelle di Santa Lucia (ché qui si festeggia Santa Lucia) dei bei quaderni ben rilegati intitolati “personal books”, perché le pagine erano stampate in modo che, per ogni libro letto, si potessero inserire delle note: una pagina un libro, con un indice iniziale da riempire. Ne acquistati tre o quattro, pensando sia a ipotetici regali, sia al fatto che, una volta riempito il primo, non avrei voluto rimanere senza il possibile seguito: sapete quelli che vi fanno vedere una pila di moleskine tutte uguali, tutte deliziosamente usate e vissute, e vi dicono: tengo nota di tutti gli eventi meteorologici da vent’anni? Ecco, volevo fare quella fine lì. Non con il meteo, con i libri letti.

Li ho presi in mano, quei quaderni: ce n’è uno ancora nuovo (anzi, veramente c’è segnato un libro, La musica del caso di Paul Auster), un altro con sei libri del 2015, 2016, e il primo con 115 libri, a iniziare dal 2007 e 2008 per finire, con balzo improvviso, al 2018. In più, ho anche un bellissimo Journal Book della Moleskine, dove è difficile fare i conti perché i libri vengono inseriti in ordine alfabetico, come in un’agenda, e dovrei sfogliare tutte le pagine per fare il punto, ma in ogni caso anche questo piantato lì.

E io so che tutti questi tentativi sono lì perché alla fine mi piacerebbe sempre ricordare perché acquisto un libro, per impulso, obbligo, consiglio, regalo e così via. Alle volte prendo in mano un romanzo che mi è piaciuto e mi dico: ma come ci sono arrivata, a questo titolo? E me lo dico soprattutto adesso che è molto più difficile che io esca, entri in una libreria e mi ci perda come facevo un tempo: i soldi, tra l’altro, sono quello che sono, gli scaffali di casa pure, e adesso un libro lo si prende, in genere, dopo una certa riflessione. Quasi sempre.

Tutta questa lunga premessa per dire che il libro di oggi, un giallo classicissimo, so bene da quale suggerimento mi viene, e me lo sono anche scritto (a matita) sul frontespizio.

Si tratta di Il dramma di Corte Rossa, di Alan Alexander Milne. Lo stesso Milne, per capirci, che ha scritto Winnie the Pooh, che è stato padre contestato del povero Christopher Robin, ma che deve almeno essere stato un figlio amorevole, perché il giallo di cui sto parlando (l’unico, mi pare, tradotto in Italia) è scritto per il suo, di padre, che come tutte le persone veramente gradevoli (prendete nota) ha un debole per le storie poliziesche. Quindi, spiega Milne, dopo tutto quello che tu hai fatto per me, il meno che io possa fare è scriverne una per te. Eccola.

La storia poliziesca, poi, alla fine gioca su elementi forse prevedibili: una camera chiusa e senza la chiave, pochi fragili personaggi, il detective dilettante che mentre si immedesima in Holmes si costruisce il suo Watson, una lettera misteriosa, un personaggio ambiguo, un passaggio segreto e così via e così via.

Leggendo altre recensioni, scopro che la soluzione è banale e prevedibile, e mi sento vieppiù scema, visto che io ho avuto un lampo (che credevo di genio, ma evidentemente no) solo a una decina di pagine dalla fine, quando ormai si era lanciati sulla dirittura finale. Ancora: mi si dice che la trama è astrusa, e io, che la riassumerei così: viene ucciso un tizio e due personaggi cercano il colpevole prima della polizia, mi trovo ancora spiazzata (che non ne abbia capito la sottigliezza?). E infine: circostanze irreali e ingenue che uno capirebbe subito se solo ci si soffermasse un secondo di più.

Tuttavia, ecco, è proprio quello che io non chiedevo a questo romanzo che invece ho letto d’un fiato, senza soffermarmi troppo ma seguendo Antony Gillingham in tutte le sue corse e i suoi ragionamenti per arrivare allo scioglimento finale: mi sono divertita alla descrizione dei personaggi, anche minori, molto molto british, con le cameriere che un po’ mi hanno ricordato Downton Abbey; mi sono piaciuti i dialoghi, leggeri, a volte brillanti; leggerezza che comunque aleggia sempre, anche in circostanze che dovrebbero essere drammatiche; le descrizioni dei paesaggi, di nuovo tipicamente, evidentemente, classicamente inglesi, così come l’atmosfera cortese e amabile che non sembra venire scalfita nemmeno da una morte violenta.

Mi è piaciuta persino la trama, della quale ho superato in scioltezza le incongruenze (nessuno si chiede mai perché succedono certe cose strane o per lo meno insolite) solo per godermi appieno un romanzo che Rex Stout ha definito “semplicemente incantevole”.

Così, se siete giallisti scafati, gran furboni a voi non la si fa, lasciate perdere questo giallo, troppo ingenuo per voi; se invece avete voglia di leggere un libro ben scritto, di piacevole lettura, divertente, questo potrebbe fare al caso vostro.

(una menzione speciale per poche righe inziali: Dai campi lontani arrivava il rumore di una falciatrice, il più riposante fra tutti i suoni della campagna, quello che rende il riposo più dolce, quando è assaporato mentre tutti gli altri lavorano.

Milne, sei tutti noi)


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