Friedrich Wilhelm Nietzsche ha detto: “Quello che non mi uccide, mi fortifica”.
Al di là del cancro (copertina del libro)
Oltre il cancro è l’ultima fatica, in ordine di tempo, di Augusto Benemeglio, un esercizio di stile, una denuncia delle ovvietà, ma soprattutto un accorato racconto di chi ha lottato contro il male per antonomasia — il cancro — e ha sofferto per la soccombenza di amici e affetti di fronte a questa malattia, riscoprendo quanto tortuoso possa essere il percorso che il destino riserva a ognuno di noi.
Oltre il cancro è un libro dalla difficile sintesi e quasi impossibile da recensire: non ci si può limitare al titolo, perché c’è più di un’esperienza di vita; non ci si può ridurre alla metrica, perché la scrittura è il mezzo e non il fine; non ci si può congedare con la solidarietà verso l’autore e verso gli ammalati, perché si perderebbe di vista il continuum, il senso del racconto: il cancro non è solo malattia del corpo, non è solo indebolimento delle facoltà mentali, non è solo affievolimento della volontà di vivere, non è solo sofferenza fine a se stessa; questa malattia costruisce intorno al malato una sorta di casa alla Ibsen, in cui regna la compassione — quella che si legge negli occhi di parenti e amici — e dalla quale non si esce con le proprie gambe, ma si può solo evadere con la fantasia:
… qui tutto intorno regna un silenzio austero, che fra due musiche compone un ponte, un silenzio greve che ammutolisce il mare, e sigilla il becco agli uccelli. È il silenzio degli ospedali. Ma tu non ci pensare. Dormi, e sogna le navi sul mare.
Nella lotta tutt’altro che scontata fra il cancro e la persona, entrano in gioco vari fattori: gli affetti, una figura portante alla quale aggrapparsi — l’autore si affida alla moglie — i medici e la loro (in)sensibilità, gli ambienti e la visione della vita; tutti questi elementi si muovono nel gioco della battaglia come pezzi su una scacchiera, purtroppo non sempre vince il più abile. Lo ribadisce più volte Benemeglio, che sembra non accettare mutamente la teoria secondo la quale la malattia è uno stato d’animo e nient’altro.
Nell’affrontare il decorso della malattia non basta essere decisi: bisogna avere dalla propria un pizzico di fortuna e un’assistenza qualificata, sia dal punto di vista materiale che spirituale; il Dio-Medico — di cui parla l’autore — non può rompere il muro di disagio del paziente se non guarda al malato come a un “universo” e non un “caso di studio”: “Ogni medico dovrebbe essere ricco di conoscenze, e non soltanto di quelle che sono contenute nei libri; i suoi pazienti dovrebbero essere i suoi libri” (Paracelso).
Benemeglio ha redatto un’opera inquietante da questo punto di vista, perché i medici vengono descritti al contempo come possibilità di salvezza o causa di sconfitta, ma comunque come una sorta di oracolo da interpellare per conoscere la propria sorte:
Che dice dottore? Ce la farò?
È un libanese con labbra nerissime,
un musulmano con gli occhi iniettati di sangue
quello che mi sorride a Villa Pia dove mi hanno trasferito
dopo che sono affondato come un tallone nudo
nel suolo screpolato di dodici ore d’attesa…
Oltre il cancro diventa un lavoro letteralmente sanguigno: il fluido ematico diventa simbolo della malattia, perché sintomo e base di analisi; e il cancro si nutre di simboli, quelli dello scoramento e del dolore implacabile; diventa, come ricorda l’autore, un mostro che se ti vuole uccidere ti uccide:
L’anima non sa più neanche gridare.
Ora i minuti e i secondi sono tutti uguali e fissi
come i giri di ruota della pompa dell’acqua.
Il viaggio finisce qui.
L’autore si arrende, ci verrebbe da dire, ma Benemeglio ci lancia un appiglio e il verso si conclude con un Forse; e continua:
Ormai non c’è più alcuna via di fuga
devi affrontare la battaglia.
Eroe per caso dunque, chi vince la sua partita contro il cancro? Può darsi, ma non c’è nichilismo nei versi di Benemeglio, che regalano l’insegnamento più grande non alla fine del libro, ma all’inizio, in prefazione:
Ci sono conquiste dell’anima impossibili senza la malattia
perché il dolore più grande, come ci ricorda l’autore, probabilmente non è fisico, e non è malattia pura, è la perdita di un figlio.
Chi ha avuto il buon senso di leggere fino in fondo questo piccolo, ma importante contributo, avrà riflettuto sui grandi temi della vita che la malattia induce a guardare sotto una prospettiva nuova, al di là della siepe, di memoria leopardiana, che Benemeglio ha descritto da poeta: egli è un artista della scrittura, ovvero uno scriba, com’egli si definisce nel testo; è riuscito a mettere insieme due forme di comunicazione diverse, ma immediate: la prosa e la poesia; è riuscito a spiegare pienamente cosa toglie e cosa dà la malattia. E se il dolore è dato per scontato, il guadagno non lo è affatto:
la sofferenza ha un valore
il dolore ha un costo
Ma c’è sempre da redimersi finché si è mare, finché si riesce a uscire fuori dal contenitore delle cose scontate; ci si può affidare al piacere della penna:
I poeti hanno solo parole
per fingere il dolore
e lo fingono così bene
da sentirlo davvero il dolore
e alla fine è il linguaggio che li salva.
Tanti i commenti positivi e i feedback che l’autore ha ricevuto sottoponendo i capitoli di questo libro agli utenti di Facebook: alcuni sono testimonianze sentite di chi ha voluto condividere su un social network qualcosa di più di uno scontato smile.
A Benemeglio dunque va la stima di lo ha conosciuto come scrittore e di chi troverà nella sua poetica gli spunti di riflessione di cui si nutre l’intelletto umano, anche nel dolore.
Jung ha scritto: “Allora fare esperienza della disfatta è anche fare esperinza della vittoria”