Dopo un tragitto di mezz’ora su uno dei fatiscenti tram di Tunisi – che qua vengono chiamati “metro” perché in tutto il tracciato c’è una galleria di cento metri – arrivo in centro alla stazione Republique. Sono un po’ in anticipo, perciò mi fermo a fissare l’ennesima manifestazione che anima questo periodo di transizione politica, l’ennesimo purgatorio di un Paese uscito dal tunnel della Primavera Araba e ancora incerto sulla direzione da prendere.
Mi fermo davanti all’Hotel Africa, sull’Avenue Habib Bourgiba, gli “Champs Elysées” della capitale della Tunisia. Mentre sorseggio il mio chai alla menta, vedo arrivare Cheima, il sorriso solare della gioventù, gli occhi pieni di speranza, il passo svelto e deciso.
Cheima Ayachi, 26 anni, è la ragazza tunisina che ho incontrato due giorni prima durante una marcia per sensibilizzare l’opinione pubblica sul diritto alla parità tra uomo e donna. Un diritto la cui realizzazione è ampiamente discutibile anche nel mondo occidentale, e che in quello arabo si scontra contro tradizioni patriarcali e interpretazioni delle scritture religiose spesso manovrate per fossilizzare la società nel suo immobilismo.
“Pensavo di andare al decimo piano dell’International, così intanto che parliamo puoi vedere Tunisi dall’alto…”
Al decimo piano dell’albergo El Hana International si trova la soleggiata terrazza del bar Jamaica, uno dei dispensatori di alcolici più apprezzati della città. Mentre aspettiamo la sua Coca Cola e il mio espresso “italiano” – è troppo presto per bere persino per me, almeno in veste ufficiale – le domando subito se il suo inglese sia dovuto a qualche periodo di studio all’estero.
“Ho studiato un anno in Belgio, ora sto finendo il mio master in Informatica Ambientale a Tunisi, ma ho anche un diploma in Fashion Design.”
Dell’Europa le manca la facilità con cui uomini e donne si confrontano su qualunque argomento, la libertà delle ragazze di vestirsi e agire come desiderano, l’immediato rispetto per ogni scelta di vita e di carriera.
“Vorrei che lo stesso accada qui in Tunisia. Le leggi per difendere i diritti delle donne ci sono, ma spesso non vengono messe in pratica. Il problema non è tanto nelle città, dove ragazzi e ragazze studiano insieme, ma nei paesi rurali. Nelle regioni povere la legge non viene messa in pratica perché le donne non conoscono i propri diritti, le ragazze spesso abbandonano la scuola molto giovani per aiutare la famiglia e mogli e figlie sono costrette a rispettare il volere degli uomini.”
Lo strumento scelto da Cheima per portare avanti la sua campagna si chiama World Merit, una piattaforma favorisce lo sviluppo di reti tra individui impegnati in ambito sociale nei campi più disparati. Un modo decisamente innovativo di concepire e supportare l’attivismo. Certo che quella faccenda dei punti mi ha lasciato un po’ perplesso…
Inizialmente World Merit non interviene direttamente a sostegno delle campagne avviate, offre solo suggerimenti e guida per realizzare i contenuti mediatici da esibire per ottenere dei punti sulla sua piattaforma. “Ma non si tratta di una competizione – ci tiene a sottolineare Cheima – il sistema dei punti serve solo a motivare gli attivisti e a consentire loro di emergere agli occhi dei possibili sponsor.”
A parte i punti, le campagne da sponsorizzare vengono scelte per la loro attinenza alla natura degli sponsor e per la determinazione con cui vengono portate avanti. I promotori più meritevoli vengono selezionati per partecipare a viaggi nelle principali città europee e americane dove incontrano altri leader di campagne sociali, partecipano a incontri di formazione e ricevono la consulenza di professionisti esperti. Lo scopo di Cheima è ottenere i fondi necessari per fondare un’organizzazione che si attivi per rafforzare il ruolo delle donne non solo in Tunisia, ma in tutto il mondo arabo, e per questo ha già in programma di viaggiare in Iraq, Yemen, Egitto e Libano. Ad ogni suo evento, ad ogni dibattito i suoi sostenitori aumentano, amici vicini e lontani si aggregano e la forza dei suoi ideali acquisisce nuovo peso.
A questo punto mi domando se il suo non sia un altro progetto che si confonderà nella galassia del femminismo globale, ma le mire della mia interlocutrice sono più sottili. “Non si tratta solo delle donne, si tratta di raggiungere un progresso più giusto e sostenibile, anche da un punto di vista ambientale. La parità dei generi è uno strumento per intraprendere questo tipo di progresso.”
Un percorso ambizioso, il suo, in cui traspare l’ampia varietà dei suoi interessi. Non le nascondo che già immagino quanti e quali ostacoli dovrà superare, a cominciare dal radicato sentimento religioso dei suoi connazionali. Ma ho toccato un tasto delicato, di religione o di politica Cheima non vuole proprio sentire parlare. La sua è una campagna civile, e non vuole fare schieramento con nessuna fazione.
Eppure di religione e politica in Tunisia non si può proprio fare a meno di parlare, soprattutto in un momento come questo, in cui modernisti e islamisti si confrontano sui palchi della propaganda in vista delle elezioni presidenziali previste entro la fine dell’anno. E di religione parla anche l’intellettuale marocchina Asma Lamrabet che nei suoi libri si occupa proprio del ruolo della donna delineato nel Corano. Un ruolo, come ha spiegato recentemente in un’intervista alla rivista Jeune Afrique, che non è mai visto come secondario o subordinato all’uomo, come invece vuolte un’interpretazione incurante del contesto storico in cui è stato scritto il libro sacro. Persino il velo non sarebbe affatto un obbligo, ma un riferimento alle pudiche usanze dell’epoca. Velo che la Larmabet indossa con fierezza, simbolo della sua fede e della sua identità culturale.
“Il tradizionale velo tunisino – mi spiega Cheima – è un foulard leggero raccolto intorno ai capelli. Anch’io lo usavo in Belgio, mia madre se lo mette ogni tanto per uscire. Non ho nulla contro il velo, ma non sopporto di vedere le donne coperte fino ai piedi.”
E pensando ai suoi genitori, Cheima mi rivela con un sorriso gentile ma fiero che una piccola vittoria l’ha già ottenuta. “Qualche volta anche mio padre aveva la brutta abitudine di camminare due metri davanti a mia madre quando passeggiavano per strada. Io lo sgridavo ogni volta. Ora, quando escono, li sorprendo a tenersi per mano.”
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Dopo una laurea in giornalismo a Verona, mi sono messo lo zaino sulle spalle e non mi sono più fermato. Sei mesi a Londra, un anno in India, e poi il Brasile, il Sudafrica… non c’è un posto al mondo dove non andrei, e non credo sia poco dal momento che odio volare. L’aereo? Fatemi portare un paracadute e poi ne riparliamo.