Il Novecento letterario italiano sembra ancora più distante dopo la scomparsa di Vincenzo Consolo, avvenuta ieri 21 gennaio 2012, nella sua casa di Milano, dopo una lunga malattia. Tra meno di un mese avrebbe compiuto 79 anni, Consolo. Nato in Sicilia, a Sant’Agata di Militello, il 18 febbraio 1933, è stato uno dei maggiori scrittori italiani contemporanei. Uno degli ultimi “testimoni”, appunto, del nostro Novecento letterario. Il suo approccio narrativo era senz’altro originale. I suoi, non sono veri e propri romanzi (intesi in senso tradizionale). “Non si possono scrivere romanzi”, sosteneva Consolo, “perché ingannano il lettore”. Ma il suo linguaggio fluiva, ricco, verso forme di scrittura intense e avvolgenti. Impossibili da “imbrigliare”. Esordì con la Mondadori nei primi anni Sessanta con “La ferita dell’aprile“. Il grande libro arriva nel 1976, con “Il sorriso dell’ignoto marinaio” (di cui parleremo in dettaglio).
Tra le sue opere, tutte tradotte in varie lingue, ricordiamo: “Retablo” (1987), “Nottetempo, casa per casa” (1992, con cui vinse il Premio Strega), “L’olivo e l’olivastro” (1994), “Lo spasimo di Palermo” (1998), “Di qua dal faro” (2001). Tra i racconti: “Le pietre di Pantalica” (1988), “Per un po’ d’erba ai limiti del feudo” (in Narratori di Sicilia a cura di L. Sciascia e S. Guglielmino, 1967), “Un giorno come gli altri” (in Racconti italiani del Novecento a cura di E. Siciliano, 1983), il racconto teatrale “Lunaria” (1985), “Catarsi” (1989). La sua ultima opera è “Il corteo di Dioniso” (2009).
Dedico questo “spazio” alla memoria di Vincenzo Consolo. Come accaduto con altri artisti della scrittura che ci hanno lasciato, questo piccolo “tributo” vuole essere appunto un omaggio, ma anche un’occasione per far conoscere questo autore a chi non ha ancora avuto modo di accostarsi alle sue opere.
Chiedo a tutti di contribuire lasciando un ricordo, un’impressione, una citazione, informazioni biografiche… ma anche link ad altri siti e quant’altro possa servire a ricordare Vincenzo Consolo e la sua produzione letteraria.
Di seguito vi offro un video che ho montato ieri notte… incentrato sulla registrazione di un mio colloquio telefonico con Vincenzo Consolo datato 2 agosto 2010 (nel video ho scritto 2 febbraio, ma è un errore), dove lo scrittore racconta i suoi inizi, la sua storia: il suo arrivo a Milano, l’esordio letterario con la Mondadori, l’incontro con Vittorini, la collaborazione con la Einaudi, la frequentazione con Salvatore Quasimodo. E poi: Italo Calvino, Natalia Ginzburg. La Milano di ieri e di oggi… e altro ancora. Credo si tratti di una delle ultime testimonianze (in formato audio/video) rilasciate dall’autore de “Il sorriso dell’ignoto marinaio”.
In chiusura di post: un ricordo offerto da Antonio Di Grado (saggista e docente di Letteratura Italiana dell’Università di Catania) e un articolo di Domenico Calcaterra (autore tra l’altro di “Vincenzo Consolo: le parole, il tono, la cadenza” un saggio/intervista edito da Prova d’Autore) scritto in esclusiva per Letteratitudine.
Ringrazio in anticipo tutti coloro che, con il loro contributo, riempiranno questo spazio di contenuti.
Massimo Maugeri
Per Vincenzo Consolo (e per Bufalino e Sciascia)
di Antonio Di Grado
Nel 1989 proposi al Teatro Stabile di Catania di commissionare ai tre grandi nostri scrittori allora viventi - Leonardo Sciascia, Gesualdo Bufalino e Vincenzo Consolo - tre atti unici da riunire in un Trittico, che fu messo in scena nel novembre di quell’anno con la regia di Antonio Calenda, con un cast di attori quali Gabriele Ferzetti, Sergio Graziani e i nostri Musumeci, Pattavina, Magistro, Perracchio, e con le musiche di Germano Mazzocchetti (il libro con i tre testi, oggi introvabile, fu curato da Giuseppe Lazzaro Danzuso e da me).Sciascia ormai stava male, molto male. Accolse l’invito ma mi pregò di provvedere io alla riduzione drammaturgica d’un suo racconto, “Arrivano i nostri”, un delizioso divertissement sul trasformismo d’un pugno di notabili siciliani, debitamente reazionari, ma raggiunti nel loro circolo dalla falsa notizia dell’invasione dell’Italia da parte dell’Armata Rossa. Una farsa amara, che concludeva il Trittico - dopo la mesta elegia di Bufalino e l’altisonante tragedia di Consolo - con un sorriso: lo stesso che strappai a Sciascia raccontandogli, all’indomani della prima, del successo e delle risate riscossi dal suo (e mio) “Quando non arrivarono i nostri”. L’ultimo sorriso, forse: si spense pochi giorni dopo, il 20 novembre. All’alba di quel giorno, fu proprio Consolo a darmi la notizia, per telefono, con voce rotta.
Pure Bufalino si prestò al cimento teatrale, con la sua sovrana sprezzatura da gentiluomo garbato e blasé. Trascrisse lui stesso in forma teatrale un suo racconto, “La panchina”. In mezzo, tra l’atto unico di Bufalino e quello di Sciascia e mio, un testo assolutamente nuovo concepito da Consolo: “Catarsi”, un testo di alta e impervia poesia, memore addirittura dei tragici greci, di Holderlin e di Pasolini; un testo che definirei di non ritorno, perciò cruciale nella sua produzione, ché nell’altezza stessa del suo linguaggio certificava l’impossibilità del linguaggio stesso di redimere il mondo dalla comunicazione omologata e asservita al Potere. E perciò drammaticamente prefigurava le successive difficoltà creative di Consolo, dovute non già a impotenza o inaridimento ma a una lacerante consapevolezza della impossibilità della parola di riscattarci dall’insensatezza e dalla menzogna.
Consolo fu il più entusiasta dei tre, il più vicino e partecipe. Non so quanto il pubblico, che si commosse con Bufalino e si divertì con Sciascia, riuscì a capirlo. Ma questa è un’altra storia.
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La memoria di una “voce narrante”
di Domenico Calcaterra
In una delle tante illuminanti pagine di Cruciverba Leonardo Sciascia, rispetto a Verga e al suo rapporto con la memoria, così si pronunciava: «si tratta di una memoria che è qualità, forma, stile: la memoria, direi, di una “voce narrante”». Non credo sia illegittimo né mi pare di recare un torto a Sciascia (il quale peraltro, ne sono convinto, sottoscriverebbe in pieno un così calzante imprestito) se le stesse parole le riferiamo, come migliore sintesi, per definire la qualità del magistero dell’ultimo dei suoi eredi, Vincenzo Consolo, la cui dipartita, da ieri, è andata ad allargare (per tutti coloro che hanno avuto la sorte di essergli amico) la nostra immedicabile ferita di orfananza.Quello stesso Sciascia che, laconicamente, presentando il libro che avrebbe dischiuso Consolo all’attenzione della critica e del pubblico, “Il sorriso dell’ignoto marinaio” (1976), esordì dicendo: «Questo libro è un parricidio» -, a voler sottolineare, egli stesso per primo, la qualità dell’atto eversivo verso cui esplicitamente muoveva l’anti-romanzo consoliano, che accanto al semprecaro tema dell’impostura della storia, univa la centrale urgenza della ricerca di una via alternativa che passasse, soprattutto, per dirla con Calvino, per l’inevitabile «fondazione di uno stile» (come raccomandato dal ligure in quel saggio d’intenti dal battagliero titolo, “La sfida al labirinto”).
La caparbia via di uno sperimentalismo letterario esercitato primariamente come obiezione critica totale, che non poteva non coinvolgere anche il codice espressivo: deflagrato e ricomposto, reiventato archeologicamente; una barocca “violentazione” della lingua radicata nello scavo di memoria, a patto di riuscire a produrre sulla pagina un sovrappiù di senso verticale. Testimoniare una memoria storica collettiva a rischio perenne di estinzione, catalizzandola in denuncia, contestazione aperta, salmodia civile dalla scansione poematica, di cui diventare la sola plausibile “voce narrante”. Ciò facendo senza mai retrocedere d’un palmo dall’inossidabile radice marxiana della sua etica, dall’essere un intellettuale ingaggiato di vecchio stampo. Così è stato sempre dopo, in un sovrumano esercizio di tetragona coerenza, specie nei suoi successivi romanzi maggiori d’impianto storico-metaforico “Nottetempo, casa per casa” (1992) e “Lo spasimo di Palermo” (1998), con i quali è venuto via via riscrivendo la sua personale contro-storia italiana, dal crudele abbaglio dell’epopea risorgimentale in Sicilia sino alle stragi di mafia, con l’intermezzo della barocca descrizione di quell’irrazionalismo decadente (memore della lucida lezione di Borgese) che avrebbe partorito la bestia nera del fascismo (trilogia che può, deve essere letta, come unico ininterrotto flusso narrativo); giungendo a codificare in ultimo (con lo “Spasimo”) il modello perfetto del romanzo-tragedia (col sistematico ricorrere, al principio d’ogni capitolo, delle “cantica”, digressioni liriche, squarci di autentica civilissima poesia). Accanto all’estesa geografia metaforica dispiegata con il cupo affresco della trilogia, complementare coronamento di un percorso letterario tra i più singolari del secondo Novecento, sono le scritture dove più esplicitamente agisce il senso del nostos (la più ingombrante tra le metafore “malinconiche di Consolo), del viaggio di ritorno, come nei racconti di “Le pietre di Pantalica” (1988) o di quel prezioso e cesellato gioiello di apparente leggerezza di scrittura che è “Retablo” (1987); o, infine, nella catabasi di sapore vittoriniano de “L’olivo e l’olivastro” (1994), il cui incipit è veramente emblematico di questa altra sua vocazione: «Ora non può narrare». Spinto a “dire” ma fuori dal gioco della finzione letteraria, di concedere più immediato sfogo alla sua voce.
A parte è poi da considerare la favola teatrale di “Lunaria” (1985), ulteriore spartiacque nello sviluppo della poetica consoliana, non a caso successiva al “Sorriso”, eccentrica operetta dal vago sentore leopardiano, con la quale il diniego per la forma romanzesca è totale (si rammenti l’eloquente dedica a Lucio Piccolo e ai poeti lunari).
Senza trascurare il Consolo scrittore d’intervento militante sui giornali, valvola di sfogo prima della sua indignazione, che gli ha fatto guadagnare un posto particolare nella casella ibrida degli scrittori-giornalisti del secondo Novecento (categoria sorprendente, con buona pace di Croce e delle sue rigide distinzioni).
Sulle ragioni della singolare oltranza di lingua e di stile, talvolta oziosamente e malignamente talaltra ingenuamente, la critica ha dovuto giocoforza misurarsi. Non di rado ponendo la fittizia e pretestuosa questione di una inconciliabile “contraddizione” irrisolta tra la linfa tutta ideologica dell’aspirazione civile di Consolo e l’opzione stilistica sempre più estremizzata e per così dire elitaria, alimentando in diversi il pregiudizio critico per cui, sin dai tempi del Sorriso, i suoi palinsesti narrativi sono stati letti o come prodotti letterari dalle soverchianti motivazioni ideologiche rispetto alle ragioni dello stile oppure, al polo opposto (secondo una lettura egualmente depotenziante), quale prova di un narcisismo barocco che tradirebbe le autentiche ragioni ideali di cui si nutre la poetica dello scrittore, riducendolo al rango di mero «postmoderno citazionista» (così Luperini su Nottetempo) o peggio ad archeologico manierista, compilatore di palinsestuosi cruciverba intertestuali (basti il recentissimo cattivo esempio offerto dalla rilettura del Sorriso da parte di Grassia). Obiezioni, l’ideologica e la formalistica, del tutto inaccettabili se appena si guarda, nel suo complesso, all’inscindibile ambivalenza del barocco consoliano: capace di coniugare come nessuno razionalità e prosodia, impegno e oltranza di stile; ciò che fa di lui un «miracoloso scrittore politico» (Onofri).
Viene meno oggi la sua «dolorosa saggezza», la «disperata intelligenza» del siciliano esule per scelta. A lungo abbiamo atteso che potesse ritrovare, come il Petro Marano di Nottetempo, «le parole, il tono, la cadenza», che sfuggisse una volta ancora alla tentazione dell’afasia, all’impietrimento, il duro silenzio, come l’Empedocle di Catarsi (perfetto concentrato della sua autobiografia intellettuale). Slow-writer sin dagli esordi, a tenerlo lontano (supponiamo) il rispetto quasi religioso e maniacale per la «parola detta e pronunciata» (chi lo conobbe sa che questa fu la sua ossessione), la rigorosità estrema di un’idea di letteratura che si pone a distanza siderale dalle sempre avversate narratologie di genere, dal facile “americanismo” scimmiottato che violenta la lingua in nome di un rigurgito di neo-neorealismo, dal macchiettismo siculo comico-seriale, dalla catena di montaggio dei tanti (troppi) bestselleristi di grido.
Spesso m’è capitato d’interrogarmi, negli ultimi anni di questo suo prolungato silenzio, su quale altro e ancor più straordinario prolifico autore Vincenzo Consolo avrebbe potuto essere se avesse abbandonate certe asprezze, talune spigolosità, quei legacci che talvolta affioravano nei suoi pezzi giornalistici o nel suo intransigentismo di principio. Ma solo ora che non c’è più, istantaneamente, mentre scrivo, realizzo che sarebbe stato chiedergli troppo, un inaccettabile snaturarsi, farsi altro da sé.
Non so quanto abbia ragione Silvio Perrella nel ritenere che si può scrivere solamente di scrittori che si è avuto la sorte d’incontrare sul proprio cammino intellettuale. Ma so per certo che conoscere l’uomo può aiutare a comprendere a fondo lo scrittore. Che tra la vita e il suo racconto il confine è invisibile. Dal canto mio, faccio davvero fatica a mettere su carta i ricordi privati. Dico solo che il mio consistere intellettuale ha subito l’imprinting iniziatico, prima ancora che delle sue pagine, del suo dire. In vent’anni d’affettuosa amicizia, somigliando la sua fisionomia di uomo e di scrittore alla più familiare effige dell’intelligenza critica che si fa parola.
Tags: vincenzo consolo
Scritto domenica, 22 gennaio 2012 alle 9:51 pm nella categoria RICORRENZE, ANNIVERSARI E CELEBRAZIONI. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. Puoi lasciare un commento, o fare un trackback dal tuo sito.