Ho ritrovato questo racconto nel backup del vecchio pc. L’avevo proprio dimenticato, sebbene queste “memorie estive” mi fecero vincere un concorso letterario qualche tempo fa. Le pubblico qui, su questo mio diario niente affatto segreto, per due motivi: per Iginio, passato per caso su questo blog, altro romantico innamorato di Ostia, che si è commosso solo a leggere l’incipit di questa storia fatta di nostalgia e ricordi e che voleva poterla leggere per intero, ma anche per inaugurare l’Estate che tanto si è fatta desiderare. Ci sono luoghi e persone e immagini e odori che ti restano appiccicati dentro, ricoperti da un pesante strato di vita successiva. Ma quando tornano a galla sono più vivi che mai.
Ostia coast to coast-ricordi a labbra salate non è lettura per tutti. Ma coloro che hanno vissuto quei luoghi, quei tempi, quelle persone, quelle storie, so che toglieranno la polvere o forse la…sabbia degli anni “dopo” e potranno, anche per poco, sorridere, magari si ritroveranno con gli occhi un po’ lucidi e il cuore un po’ più molle. E questo sarà il mio premio più grande. Buona lettura.
Aveva imparato a capire che la stagione era ufficialmente iniziata, non solo dalle giornate così luminose che sembrava ci avessero passato su un pennello intinto nel lucido, ma soprattutto da quell’aroma inconfondibile che si respirava passeggiando sul lungomare. Era un misto di abbronzante al cocco, crema Nivea, fritto di pesce e un vago sentore dei krapfen di Paglia e per lei rappresentava la conferma dell’avvio della sua stagione preferita, l’estate.
Estate finalmente, Estate, con la maiuscola, perché sarebbe tornata la comitiva, quella dei “romani” che a settembre lasciavano gli ostiolani, battezzati così quasi con disprezzo, per tornare a Roma dove, soprattutto nei quartieri di Monteverde, Parioli, Eur e Vigna Clara, si svolgeva la loro vita invernale da bravi figli di papà. Le coppie estive, le cui età sommate insieme arrivavano a malapena ai trent’anni e chesi erano giurate eterno amore, scoppiavano al primo temporale autunnale, perché la distanza tra Ostia e la capitale, quella mezz’ora di trenino, sembrava incolmabile. Ma forse di incolmabile c’era soltanto la differenza di mentalità e stile di vita tra ragazzini costretti a rientrare nei ranghi, negli orari, negli impegni, nel traffico di città e gli altri, quelli più “selvaggi”, quelli che dopo la scuola potevano comunque saltare in sella alla bici e scorrazzare per la pineta oppure andare al mare e fare l’ultimo bagno a metà ottobre e il primo della stagione a Pasqua. La cosa che più la colpiva delle famiglie dei villeggianti romani era che quando venivano ad Ostia in avanscoperta, magari per prenotare la cabina al mare, verso la domenica delle palme o anche dopo, nelle domeniche di maggio e perfino a giugno, indossavano ancora maglioncini, calze, scarpe chiuse e perfino trench. Mentre loro, i “selvaggi” di Ostia, avevano messo tutto l’abbigliamento invernale in naftalina e sfoggiavano, oltre ad un primo accenno di tintarella, sandali aperti, magliette senza maniche e calzoncini. Sicuramente i giovanissimi romani un po’ li invidiavano per questo, anche se non l’avrebbero ammesso neppure sotto tortura.
I ragazzi del Belsito degli anni ‘70, per lo più rampolli della media borghesia della capitale, figli di commercianti e piccoli imprenditori, si erano conosciuti da bambini sotto l’ombrellone, complici insieme facevano scherzi a Pasqualino e Trento, i bagnini storici dello stabilimento, tra quelle cabine a colori pastello si innamoravano, tra una partita di pallavolo e una a racchettoni si fidanzavano e qualcuno, coppia superstite alla fine della stagione, con l’amata “Belsitina” metteva pure su famiglia. Alcuni non hanno fatto in tempo a diventare grandi, per colpa di un incidente, di un male bastardo o di robaccia iniettata in vena e i nostalgici, giunti ormai alla mezza età, hanno creato un gruppo su un social network, una sorta di grande freddo telematico, con foto d’epoca, molti “ti ricordi”, calambour e battute goliardiche.
Oggi, passeggiando con i suoi cani, tra le cabine a colori pastello del Belsito, in un tempo che è non è più primavera e neanche estate, lei si imbatte in una folla di ragazzini vocianti, che si rincorrono tirandosi secchiate d’acqua e ridendo a crepapelle.
Le pare di riconoscerne almeno quattro. La bionda giunonica Elle dai magici occhi blù come il mare di luglio. Deve per forza essere lei, era l’unica che portava il costume intero, stesso colore degli occhi, forse per contenere meglio quel suo seno prorompente e sfrontato, che Elle si guardava bene dall’esibire. L’aveva riconosciuta perché sovrastava tutti con la sua altezza ed emanava una contenuta saggezza da leader, quasi a voler dire “Che vogliamo farci? Si divertono così, sono un tantino infantili, ma ci sono io a tenerli a bada”. E poi il biondo Emme con quegli occhi diversi, non nel colore, ma proprio asimmetrici come taglio, uno all’ingiù e l’altro più dritto. Ma il biondo Emme non se ne faceva mica un problema no, anzi ne faceva un’arma di seduzione. Era sempre il primo quando c’era da acchiappare qualcuna e gettarla in acqua, anzi in genere era proprio lui a proporre lo scherzo. In realtà lei non è proprio sicurissima che quel ragazzino che ride rumorosamente scappando via sia proprio il biondo Emme, però certo che gli assomiglia tanto.
Ad un certo punto i cani le sfuggono di mano e corrono via abbaiando. Lei gli va dietro e quasi arriva a sbattere contro Esse, fisico da dio greco, moro dagli occhi di brace, colui che aveva turbato i sonni di tutta la sua adolescenza, che suonava la chitarra come pochi tant’è che più avanti riuscirà a farne un mestiere, e che organizzava sedute spiritiche con effetti speciali che terrorizzavano tutti i ragazzini della comitiva, che poi si era messo insieme a Gi, di poco più grande, una che con i maschi ci sapeva fare e li trattava da padrona, prendendoli e lasciandoli a suo piacimento, ma il giochino con Esse non le riuscì. Il loro amore resistette anche all’inverno, ma quando Gi tornò al mare la loro passione si sciolse sotto al sole.
Quando riesce a recuperare Jo, il setter, passa accanto alle gemelle A e Pa. Fa per salutarle, ma possibile che loro neppure la guardino? Come possono non riconoscerla se per un numero imprecisato di estati avevano allestito insieme la bancarella dei giornalini e poi, diventate adolescenti, si erano raccontate i segreti più inconfessabili, che andavano dalla classifica del ragazzino più fico, al primo bacio rubato dietro le cabine, tra le docce e la fontanella, al preoccupante ritardo con il terrore di un’inopportuna e precoce gravidanza?
Ma loro, le gemelle, conquegli identici costumini neri e rossi con le ruches, corrono via ridendo, verso il mare, e ci si tuffano schizzandosi l’acqua l’una con l’altra. Lei vorrebbe inseguirle, forse non l’hanno vista, ma Pepe, il bassotto, corre dalla parte opposta e lei, per paura di perderlo, gli va dietro. Ed è lì, in direzione Plinius, che incontra Erre, la dolce, timida, troppo educata Erre, intenta a spazzolarsi i lunghi capelli mossi, appoggiata alla cabina 156, con un asciugamano arancione attorno alla vita e i grandi occhioni celesti sempre stupiti sul mondo. Ai tempi della loro adolescenza Erre se ne stava sempre un po’ in disparte, non si lasciava mai coinvolgere in quegli scherzi che finivano sempre in acqua, e questa sua autoesclusione le aveva fatto guadagnare il soprannome di Contessa. Qualcuno poi aveva messo in giro la voce che Contessa Erre fosse ritardata e lei lasciava che lo pensassero, quasi a farsi scudo di questa tara fasulla che le avevano appioppato addosso e che, in qualche modo, la proteggeva dall’esagerata esuberanza dei suoi compagni di vacanze. Quando un anno dopo la videro abbarbicata come una vite americana alla new entry della comitiva, un fustacchione italo canadese, campione di football americano, dal quale non si separava neppure per andare a fare la doccia, e che divenne il gossip più goloso dell’estate del ‘76, dovettero ricredersi. In seguito Erre diventò una cantante rock che si scatenava sul palco con i capelli cotonati, minigonne di pelle e un’infinità di borchie e catene, riportando anche un discreto successo e riscattando così quella sindrome da coniglietto che, probabilmente, le aveva avvelenato l’adolescenza.
Una volta recuperato il cane le viene voglia di andare sulla terrazza del Plinius, un posto talmente bello che viene scelto come location per tanti film e che a lei fa scattare la moviola dei ricordi, una serie di flashback messi in fila come una presentazione Power Point, ma della quale è impossibile fare il fermo immagine.
Lui aveva ricci incolti e biondi e gli occhi verdi un po’ sporgenti. Era alto, magro, con la pelle sempre un po’ scottata dal sole e lo strato di pelle sulle spalle che formava una specie di cartina geografica. Lei si divertiva a tirargli via quei pezzetti di pelle, ma doveva mettersi in punta di piedi per arrivarci. Non l’aveva conosciuto allo stabilimento, bensì nel primo campeggio della sua vita e una volta che lui aveva invitato lei e la sua amica a bere un frullato di fragole nella sua roulotte, si era aperto il coperchio del frullatore e loro passarono il pomeriggio a pulire una quantità esagerata di poltiglia rosa dalle pareti e in ogni angolo della roulotte prima che i genitori di lui si accorgessero del disastro.
Poi se l’era ritrovato su quella terrazza, un giorno che era salita lassù, a piangere per una discussione furibonda col fidanzato, quale al momento l’aveva dimenticato. Si riconobbero e appresero di essere vicini di stabilimento.
-Ah…e così tu stai al Belsito, sei tra quelli altolocati allora…. –
Lei si guardò bene dall’esternare ciò che pensava e che tutti i suoi amici dicevano sempre e cioè che il Plinius era un postaccio per borgatari, coatti e morti di fame.
-Beh…veramente…che coincidenza essere vicini di stabilimento, no? –
Si raccontarono un po’ delle rispettive vite, lui era stato bocciato ma sembrava non esserne poi così addolorato, e tra due settimane sarebbe partito per Londra. Mentre parlava con lo stesso idioma di Thomas Milian ne Il Monnezza, lei notò che per essere così alto aveva piedi piccoli, quasi sproporzionati. Lui le chiese se voleva un gelato, lei rispose che avrebbe preferito un frullato di fragole e risero insieme. Entrarono nel bar del Plinius e ne uscirono dalla parte del Belsito con due gocciolanti Fiordifragola. Ma mentre camminavano vicini, a lei venne in mente che forse non era il caso di presentarlo alla comitiva, non ce lo vedeva proprio, aveva un altro stile, era di un altro pianeta, l’avrebbero preso in giro e magari ci sarebbe scappata la battuta pesante e sarebbero arrivati alle mani. Senza contare che dall’altra parte c’era anche il suo fidanzato che, anche se ora non ricordava come si chiamasse, comunque, quel giorno aveva la luna parecchio di traverso. Ad un certo punto lui si accese una sigaretta. Fumava. Cavolo…nessuno dei suoi amici fumava, a parte un paio che però erano di qualche anno più grandi. Non aveva neppure fatto caso che aveva un pacchetto di sigarette.
-Torniamo sulla terrazza? Ti và? –
-Cos’è? Ti scoccia se i tuoi amici ti vedono insieme a me? –
-Nooooo….è che….sai di là c’è il mio ragazzo ed è particolarmente geloso. Abbiamo litigato, è per questo che sono salita lassù –
Riattraversarono quella linea di confine tra coatti e figli di papà, rappresentata dal bar del Plinius (che al mattino presto sfornava pizzette buonissime e a pranzo serviva i supplì più filanti di tutta Ostia e così metteva d’accordo tutti) e risalirono sulla terrazza.
-E’ fantastico quassù non trovi? Se guardi verso sinistra, nelle giornate più limpide, riesci a vedere Torvajanica e se guardi a destra vedi il pontile e controlli tutti quelli che sono sotto a te, vedi? –
-E se guardi sotto i pilastri del pontile, ci sono attaccate le cozze, vedi? –
L’affermazione non era granché romantica, ma quello che seguì lo fu molto di più.
-Vuoi venire con me a Capocotta domani?La spiaggia è bellissima, lunga e larga, e il mare è più pulito. E poi ci stanno pochi ombrelloni e il verde, mica come qua che alle spalle c’hai il cemento –
-Ci arriva l’autobus a Capocotta? –
-Macchè, io c’ho la moto, ci andiamo con quella –
Per una frazione di secondo lei si vide su quella moto, con i capelli al vento, perché mica c’era l’obbligo del casco allora, poi vide la faccia di sua madre che guardava lei salire su una moto, con un coatto dai capelli lunghi e incolti che già fumava, sapendo che sua figlia si stava dirigendo verso uno dei leggendari luoghi di perdizione, la spiaggia dei nudisti. E allora rispose tutto d’un fiato:
-Mi piacerebbe un sacco, ma domani devo andare a Roma con mia madre per delle visite mediche –
Lui ovviamente non ci credette neppure un po’ e gli disse che aveva l’età giusta per cominciare ad essere libera e che, se voleva, ci si poteva andare un altro giorno.
La mattina seguente lei non andò in spiaggia perché se l’avesse incontrato avrebbe dovuto scavare una profonda buca nella sabbia e ci si sarebbe dovuta sotterrare. Ci andò il pomeriggio e salì sulla terrazza, dopo un po’ arrivo lui.
-Non sei andato più a Capocotta? –
-No, sono dovuto andare a Roma per visite mediche –
-Mi prendi in giro? –
-Certo. –
E così dicendo le mise un braccio attorno alle spalle, poi appoggiò la testa sulla sua, quindi mise la bocca troppo vicino alla sua per non far scattare il bacio.
Lei pensò due cose. La prima che sapeva di fragola, forse per le gomme rosa che masticava facendo enormi palloni appiccicosi. La seconda che di questo fatto, assolutamente involontario e inaspettato, andava immantinente fatta partecipe la sua amica Cri.
-Vuoi vedere la mia moto?E’ qui fuori, vieni –
Lei intanto si chiedeva come fosse possibile che la mente maschile dopo un momento tanto tenero e intenso possa chiedere alla ragazza appena baciata di venire a vedere la moto. Che abbia a che fare con la teoria del simbolismo fallico?
-Bella, la fanno solo di questo colore? –
-No, la fanno pure rossa, blu e gialla, perché? –
Lei che quasi non capiva la differenza tra una moto e un motorino, data la sua scarsa conoscenza tecnica dell’argomento, e ancora onnubilata dal bacio a sorpresa, non aveva trovato di meglio che interessarsi al colore e trovava vagamente volgare quell’arancio fluorescente e poi sui lati era tutta sporca di fango.
Non avrebbe mai potuto immaginare che solo poche settimane più tardi quella stessa moto da cross arancione fluorescente sarebbe stata urtata sulla gomma posteriore mentre era in corsa sulla Cristoforo Colombo e il suo conducente sbalzato a diversi metri di distanza, dove sarebbe rimasto con i suoi piccoli piedi sproporzionati in mostra, senza scarpe, sbalzate chissà dove, fino all’arrivo della polizia mortuaria. Lei non si sarebbe mai perdonata il fatto di non essere andata con lui a Capocotta, la cosa avrebbe potuto cambiare il corso degli eventi ma, anche se così non fosse stato, avrebbe avuto una giornata in più in sua compagnia da ricordare.
Dalla terrazza del Plinius vede il mare luccicare, i suoi cani sono sdraiati a terra con la lingua penzoloni, sarebbe il caso di portarli a bere. Quando lei era un’adolescente e faceva parte di quella megacomitiva di ragazzini abbronzati e con tutta la vita davanti, sotto quella terrazza c’era un pontile con tante cabine sospese sul mare. In seguito all’erosione quel pontile venne eliminato perché giudicato pericoloso, e con lui sparirono tutte le cabine, anche quella delle tre Elle, tre cugine i cui nomi iniziavano tutti con la lettera elle. La Elle più grande d’età ma più piccola di statura è, come lei, un’”ostiolana” e ancora oggi una delle sue migliori amiche. Elle la fa ridere come nessuno al mondo e sa cucinare il pollo al curry meglio di un’indiana.
Per portare a bere i cani scende le scale che portano a quella terrazza dove i ricordi si dipanano fino a scivolare nel mare e percorre la strada a ritroso. Si ferma un attimo davanti a quella che era la cabina di Effe, alla fine del Belsito Sud. La cabina è sempre celeste e a lei sembra di vederlo. Più alto dei suoi due fratelli, bello come il sole, con la faccia da bravo ragazzo modello anni ’50 e lo Speedo turchese. Effe era bravo a far tutto, nuotava come Mark Spitz, giocava a tennis come Panatta e a pallone come Platinì. Aveva l’eleganza di un principe, la classe di un indossatore e la modestia di un frate francescano. Un giorno, lontano dalla sua cabina celeste, dalle parti del campetto di beach volley e precisamente dietro ad una cabina gialla, Effe le disse che quando sarebbero stati marito e moglie, e avrebbero vissuto nella bella casa col prato all’inglese e un grosso cane peloso, voleva due figli e voleva chiamarli Giorgio e Martina. A lei il nome Martina piaceva, ma protestava per Giorgio perché diceva che era un nome da direttore di banca, da amministratore d’azienda, da avvocato e che non era il nome da dare ad un neonato che, probabilmente, sarebbe nato già con una cravatta regimental al collo. Effe ribatteva che prima o poi il loro bambino sarebbe cresciuto e che Giorgio suonava anche bene con il suo cognome. Effe era il principe azzurro che tutte le ragazzine sognavano ma, come accade nelle migliori storie d’amore, c’era un problema. Il problema di Effe era la mamma, un donnone con i capelli sempre cotonati che teneva i tre figli come un ufficiale asburgico comanda il suo esercito. Effe era succube della Signora Mamma e aveva il sacro terrore delle sue punizioni. Per scambiarsi un bacio o anche solo per stare sdraiati a fantasticare sulla loro futura famiglia in stile Mulino Bianco, lei ed Effe dovevano appartarsi o, comunque, dovevano eludere la sorveglianza della Signora Mamma. La cosa aveva fatto il giro della comitiva, cosicché quando loro se ne stavano vicini vicini a scambiarsi effusioni, c’erano sempre un paio di amici di guardia che, all’occorrenza, li avvertivano dell’arrivo della Signora Mamma in giro di perlustrazione. Se lei e Effe volevano fare il bagno insieme, prima una entrava in acqua e solo dopo l’altro poteva raggiungerla. La cosa era diventata un incubo, neanche il bel figlio di Mammà fosse stato una vergine di cui preservare l’illibatezza. A questo punto viene da chiedersi il perché di cotanta sorveglianza su un figlio maschio, adolescente e, pertanto, con i sentimenti e gli ormoni in fibrillazione. La Signora Mamma aveva un motto: rigore e disciplina. Anche d’estate? Certamente. Il pargolo Effe giocava a pallavolo e a tennis e frequentava il quinto ginnasio di un esclusivo liceo romano. Era un portento nello sport e il primo della classe a scuola. Per lui la Signora Mamma stava organizzando un brillante futuro che prevedeva università, laurea, un’azienda, un buon matrimonio, una carriera politica e magari, chissà, la poltrona di Presidente del Consiglio. Se tutto ciò avesse comportato qualche piccolo sacrificio, tipo rinunciare alle normali attività adolescenziali … pazienza. Niente distrazioni, una ragazzina avrebbe potuto significare una perdita di tempo e di energie e, dio non voglia, un incidente di percorso. Finita l’estate da Giulietta e Romeo, ai due non era permesso neppure telefonarsi, cellulari e social network erano ancora fantascienza e forse fu anche per questo che il loro amore ingiallì e si seccò come le prime foglie autunnali. C’è da dire che l’aitante Effe non brillava per coraggio, intraprendenza e ribellione alla dittatura genitoriale, ma questo lei lo capì dopo anni e dopo parecchie lacrime versate sulle note di “Questo piccolo grande amore”.
I cani bevono rumorosamente alla fontanella dietro a quella che ogni belsitino conosce come “la casa bianca”, che oggi è ridipinta di un verdino menta, che ha visto le più cruente battaglie a colpi di bombe d’acqua e custodito i segreti di generazioni di adolescenti femmine.
Quando lei fa per girarsi si trova dietro la su amica Esse, di poco più piccola degli altri della comitiva, ma a quell’età anche due anni fanno una differenza sostanziale, quella che se ne stava quasi sempre vicino alla sua cabina, forse perché suo fratello Enne era gelosissimo e siccome lei era molto bella e a quattordici anni aveva già una quarta di reggiseno, la carnagione ambrata e i capelli biondi schiariti dal sole, raramente partecipava alle attività del gruppo.
Esse le sta sorridendo, evviva, almeno lei l’ha riconosciuta. E invece no, il sorriso è diretto a Lalla e Palla, altre due sorelline di due colonne portanti della comitiva. Lalla ha una strana malattia della pelle che le ha procurato delle brutte chiazze rosa, come se in alcune parti del suo corpo, mancasse la pigmentazione e la melanina in quelle zone fosse bandita. L’ignoranza della gente fece tutto il possibile per rovinargli le vacanze estive, le mamme dei baldi giovani raccomandavano ai figli di tenerla a distanza, non sia mai la malattia di Lalla fosse stata contagiosa.
Esse, Lalla e Palla sono amiche e niente potrà mai rompere quella complicità fatta di gridolini, risatine, segreti segretissimi, chiacchierate fitte fitte e corse sui vesponi per raggiungere il bar dove si consumava ogni sera il rito della granita con panna più buona di Ostia che chiudeva la giornata al mare e dava il fischio d’inizio per le attività festaiole notturne.
Ma in futuro qualcosa di terribile spezzerà per sempre quella amicizia. La procace Esse, con la pelle ambrata e i capelli schiariti dal sole, giovane neosposa, si ammalerà di Aids per colpa di un marito, pure medico, ma anche di una società, criminale che nasconde la malattia per vergogna, ma che non si vergogna di aver cancellato per sempre il sorriso luminoso e la vita della giovane, bellissima, Esse.
Lei ora pensa che l’amicizia è proprio come la bici, puoi non andarci per anni, la puoi tenere chiusa in cantina senza mai neppure ricordare di quale colore fosse, ma basta un’ipotesi di nostalgia per balzare in sella e pedalare sicura come sempre.
-Ma scusa, quando ti ha chiesto se ti volevi mettere con lui, tu che gli hai detto? –
-Non lo so, ci devo pensare. –
-Ma vi siete perlomeno baciati? –
Non lo so, ci devo pensare. E infatti ci doveva pensare, perché non se lo ricordava più. Significa che non era importante. O che forse il bacio non c’era stato.
Invece rammentava benissimo Oz. Secco e lungo, talmente lungo che camminava curvo, come un vecchietto. Anche gli occhi erano all’ingiù, come quelli di uno che dalla vita ormai non si aspetta più nulla. Anche se aveva sedici anni. Indossava sempre un costume giallo limone, assolutamente inopportuno indosso a chiunque, figuriamoci su uno con il suo fisico. Oz era come una femmina, non perché avesse tendenze omosessuali, ma perché lei gli poteva raccontare tutto quello che normalmente avrebbe confidato ad un’amica. Oz era il fidato depositario dei segreti segretissimi ed era anche il più fido cane da guardia nell’estate della sua storia con Effe. Con lui si sentiva forte e anche vigliacca perché sapeva di sfruttare la dedizione di Oz a suo vantaggio. Talvolta le sembrava di trattare con il maggiordomo più affezionato e servizievole. Con Oz aveva fatto lunghe passeggiate sulla battigia, all’imbrunire, quando i bagnini con le loro scope di fascine spazzavano le passerelle. Con Oz aveva nuotato da una scogliera all’altra e si era fermata lontano, alla “secca”, per chiacchierare di cose che così nessuno avrebbe potuto ascoltare. La mattina presto, nelle ore bollenti di agosto, la sera, dopo mangiato, prima di mangiare, ad inizio e fine stagione, Oz c’era sempre. Ora, a distanza di anni e sembra un’altra vita, anche se Oz non lo saprà mai, lei lo ringrazia per tutte le cose non dette e che, lo capisce solo ora, in quest’altra vita, Oz avrebbe voluto dirle.
Ora è arrivata quasi sulla riva del mare. Il setter Jo scappa in acqua, sguazzando felice. Lei avrebbe voglia di fare altrettanto, invece si siede su una duna di sabbia, una scultura regalata dalle mareggiate dell’inverno appena passato. Guardando verso l’orizzonte li vede avvicinare. Il vento li sospinge a gran velocità, ma quando sembra stiano per approdare, ecco che strambano e si riportano verso il largo, con il corpo obliquo rispetto alle vele colorate a cui sono aggrappati, i capelli e la pelle imbevuti di sole e salsedine. Ora tornano indietro e questa volta è per fermarsi, saltano giù dalle tavole con gesti atletici di chi sa di avere un pubblico che osserva ogni loro mossa, ogni loro dettaglio. Giò è bello come arrivato dal cielo, bello, tornito e scultoreo, bello nel senso di forte, biondo e sano. Bello che sembra uno di Baywatch. Ha una superiorità naturale e le lentiggini sul naso spellato. Appena tocca terra corre a baciare Sym che, apparentemente annoiata, continua a cospargersi da ore di olio solare, come ipnotizzata dal suo stesso corpo.
Giù è dietro di lui, ha il sorriso furbo di chi la spunta sempre. Sono tre estati che lo conosce e sembra non abbia mai avuto una fidanzata per più di due giorni. Giù fa complimenti a tutte, abbraccia tutte, a tutte scompiglia i capelli con gesto affettuoso e, pare, le abbia baciate tutte. Ora si dirige verso Frà, le si sdraia sopra e lei caccia un grido, probabilmente non per pudore, ma solo perché lui è bagnato e lei bollente di sole. Qualcuno più tardi li chiuderà insieme nella cabina 108 e li lascerà lì dentro per quasi due ore. Pare che loro non abbiano protestato troppo per lo scherzo che fruttò a Frà il record per essere stata colei che riuscì a legare Giù per quasi un mese.
Il setter Jo, dopo essersi scrollato l’acqua di dosso, si viene a rotolare nella sabbia accanto a lei, mentre i due bassotti annusano conchiglie e piume di gabbiano poco distanti.
Lei aveva quindici anni e una gonna lunga a balze, con piccoli fiorellini rossi alternati a stelle alpine, su sfondo scuro, un paio di zoccoli di legno e dei rayban poggiati sulla fronte a trattenere i capelli. Ricorda perfettamente che era vestita così quando la vide per la prima volta. Ale emanava il senso di levità di certe ragazze felici, qualcosa di assolutamente inusuale tra le sue coetanee. Le si indovinava una famiglia benestante e unita, una bella casa, delle scuole esclusive ed un futuro pieno di desideri esauditi. Tra lei e Ale fu intesa a prima vista. Più del suo amico fidato Ale fu depositaria di amori impossibili e così segreti che l’oggetto del desiderio non ne venne mai a conoscenza. Lei ed Ale si sedevano alle Capannelle del bar del Belsito a sbocconcellare pizzette e a fare maglioni ai ferri come vecchie signore (questa moda di maneggiare gomitoli di lana con temperature di trentotto gradi all’ombra, dissertando di dritti, rovesci e calature, avrebbe meritato l’attenzione di qualche studioso di disturbi del comportamento), a leggere assorte romanzi, ognuna per sé, ma consapevoli che quello che una leggeva, avrebbe recepito anche l’altra, in un gioco di vasi comunicanti formati dall’empatia che le univa.
Succede che le amiche si scambino per specchi, i sogni di una depositati nella vita dell’altra. O, forse, è soltanto che affrontare la vita in due fa meno paura.
L’amicizia subiva una pausa alla fine di settembre per riprendere con più vigore ai primi di giugno. Durante l’inverno lei e Ale si sentivano abbastanza spesso, restando al telefono per ore ed entrambe amavano scriversi interminabili lettere. A nessuna delle due venne mai in mente di incontrarsi in inverno, per quel misterioso e perverso incantesimo che teneva Roma e Ostia, ma soprattutto i ragazzini di città e quelli del mare, distanti come il Polo Nord dal Polo Sud.
Quando Ale rimase incinta di Pep aveva diciassette anni e per “risolvere il problema” dovette andare a Londra. Quando ritornò e si rincontrarono d’estate al Belsito ad Ale si erano spenti il sorriso e la luce degli occhi e quel senso di levità che la contraddistingueva non c’era più, probabilmente era rimasto in una stanza di un grigio ospedale londinese. Se n’erano andate anche la complicità e l’empatia che le univa e ormai non avevano più nulla da dirsi. Solo molto più tardi lei venne a sapere che la sua amica Ale si trasferì in Malawi con un’organizzazione che si occupava di bambini poverissimi e una volta la vide in un’intervista al telegiornale e capì che quello era il suo modo per riscattarsi.
Ora sulla battigia sta passando un ragazzo in bicicletta e lei ricorda qualcosa che credeva di aver perso nella fitta rete stradale dei suoi ricordi adolescenziali.
Una mattina di agosto, grazie al padre di qualcuno che trafficava col cinema, la solida combriccola dei felici anni adolescenziali si ritrovò su un’ assolatissima collina della campagna romana sovrastata da un casale mezzo diroccato. Ad ognuno di loro, a cui era stato raccomandato di venire in calzoncini corti, venne data una bicicletta. Sarebbero stati attori per un giorno, anzi comparse, in un film che, si scoprì soltanto quel giorno, doveva far parte del filone porno soft che in quegli anni andava per la maggiore. Agli ordini di un regista urlante, dovevano scendere e risalire una strada sterrata, pedalando alacremente sotto il cocente sole d’agosto, fino ad arrivare al cospetto di un tizio vestito da prete che gli avrebbe inveito contro. La scena venne ripetuta decine di volte, ogni tanto qualcuno si fermava, qualcuno cadeva, si inceppavano i pedali e le giovanissime coppie tentavano di imboscarsi dietro ad un covone di fieno o ad un albero di pesco. Ogni volta bisognava ricominciare da capo. Alla fine della giornata erano sudati ed esausti, avevano mangiato un po’ di pasta al sugo incollata, un petto di pollo che sapeva di plastica e una pesca molliccia. Avevano ritirato le loro centomila lire di paga ed erano felici, si sentivano “attori”, anche se nessuno di loro riuscì mai a vedere quel film.
Poi la stagione del Belsito finì e tutti o quasi si persero di vista. Avevano la vita da fare. Ed ognuno andò a costruirsi la sua.
Il suo percorso balneare passò spesso per Capocotta dove, nel periodo di massimo spirito new age, vagò tra “Il battello ubriaco”, “Il Divino” ed “Hello Johnny”, mischiata tra un popolo di artisti o sedicenti tali, con costumi ridotti al minimo e progetti elevati al massimo, in giornate di sole e libertà che si prolungavano fino a notte fonda tra musica reggae, live rock e recital di poesie. I ricordi scorrono come le perle di una collana sfilata, cadono, rimbalzano e rotolano via, seguiti immediatamente da altri che fanno la stessa fine. Impossibile recuperarli ora.
Poi venne l’età del (finto) perbenismo. E lei si vede accanto al suo ragazzo storico, con un costumino nero e bòn tòn, sdraiata su un lettino de “La Pinetina”, a rosolarsi sotto lo stesso sole che l’ha vista crescere, a guardare lui che gioca con i suoi amici a racchettoni, in compagnia di altre fidanzate di, superfluo ricordarne il nome chè bastava quello dei loro maschi. Si parla di cose futili, costumi, creme solari, discoteche, musica, feste, le prime moto d’acqua portate ad Ostia da uno del gruppo, gossip, chi si è messo o si è lasciato con chi. Un periodo inutile, vuoto abbastanza, annoiato, dove l’unica preoccupazione era organizzare la serata per trarne il massimo divertimento. Durò poco perché lei non era fatta per annoiarsi.
I cani si sono fermati finalmente e sembrano dormire sulla sabbia calda. Un bambino che deve aver imparato a camminare da poco si avvicina, sorretto dalla giovane mamma e attratto dalle bestiole.
Quando il suo primo bambino era ancora nella pancia, gli aveva insegnato cos’è il mare. Entrava in acqua lentamente, facendosi lambire il ventre dalle onde e accarezzandolo. Poi si lasciava andare sulla schiena, galleggiando, quindi si voltava e nuotava verso l’orizzonte. Nuotava tanto quando aspettava suo figlio, così tanto che più di una persona l’aveva rimproverata perché non doveva stancarsi. Ma lei, come un pesce, stava bene soltanto in mare. Il risultato fu che il piccolo che partorì, pensando anche un poco alla sua amica Ale finita in Malawi ad espiare una colpa non sua,a quattro mesi ebbe il suo primo battesimo acquatico che sembrò gradire molto. Non passava giorno che nelle ore più calde, portasse il suo piccolo, tutto nudo come un animaletto, a consumare il rito del bagno che lo rendeva felice, lo faceva mangiare di gusto e poi crollare addormentato, cosa che permetteva a lei di leggere un po’ o di chiacchierare con le amiche della cabina, al “Tibidabo”. Quella era la cabina con la posizione migliore, proprio di fronte al mare, abbastanza grande da contenere un’infinità di giocattoli, una piscina gonfiabile, valige di pannolini, set di palle e palline, thermos di pappe precotte, biberon e tutte le mille carabattole che ogni mamma si porta dietro anche solo per una breve passeggiata col pupo.
Leonardo, il gestore del chiosco turchese sulla spiaggia, che non smetteva mai di suonare musica, oltre a scaldarle il biberon, le usava la cortesia di abbassare il volume quando il piccolo Lolly dormiva all’ombra.
Di estate al Tibidabo ce ne fu più di una, anche il secondo figlio ebbe lì il suo battesimo del mare e anche lui fu, se possibile, ancora più felice e divertito del primo. Gli oggetti nella cabina raddoppiaronoe si aggiunse un secondo passeggino.
Quando i suoi cuccioli avevano imparato a camminare senza traballare troppo sulle gambette cicciotte, lo scenario estivo cambiò ancora.
De “Le Palme”, sulla litoranea, ricorda soprattutto i chilometri percorsi sulla passerella con un passeggino abitato da un ometto nudo col pannolino, nel disperato tentativo di farlo addormentare e poi trasferirsi a leggere e sonnecchiare sulla riva, sotto l’ombrellone. Svaniti gli anni delle zingarate, delle comitive e delle trasgressioni, talvolta si sentiva un po’ una signora borghese, con le tette grosse ed enormi sacche di giochi e pannolini trascinati nel tragitto cabina-ombrellone e ritorno, incastrata e fusa tra continui cambi di pannolini e pantomime col cucchiaio a mezz’asta per far sì che il piccolo ingurgitasse una parvenza di pasto. Passava intere giornate al mare con i bambini e con i ritmi scanditi da orari inflessibili, colazione, merenda, bagno, seconda merenda, lavare le mani, pranzo alla tavola calda dove, per fortuna, la cuoca la coccolava riservandole le pietanze migliori, quindi ninna di uno con continuo dondolio del passeggino e poi dell’altro, protetto dall’ombra. E poi bagno, doccia dei pargoli urlanti e, finalmente, a casa. Un tour de force non indifferente, con le giornate in sequenza, tutte perfettamente uguali, ravvivate dalle meravigliose scoperte dei piccoli, una volta una conchiglia rosa, un’altra un pesce, un granchio, un tuffo dalle spalle materne.
“Mamma arriviamo fino alla boa?”, “Mamma facciamo che tu eri mamma delfino e noi i cuccioli e ci porti sulla schiena?”, Mamma mi guardi? Stai guardando come nuoto? Mamma ma non mi guardi?”, “Mamma, e se ci sono gli squali?”, “Mamma posso fare il bagno?” “Mamma quanto manca che posso fare il bagno?” “Mamma sono passati cinque minuti ora?”, “Mamma se tu non mi metti la crema solare appiccicosa, ti regalo questa bellissima conchiglia?”, “Mamma andiamo sul barcone?”, “Mamma mi compri il gelato?”, “Mamma mi compri i palloncini per tirare l’acqua?”, “Mamma mi compri il barcone?”
Come su uno schermo dove scorrevano delle immagini che pensava di aver perduto, lei si vedeva entrare in acqua con uno attaccato addosso come un bradipo e l’altro a cavalcioni. “Mamma, arriviamo fino alla boa?”
-Signora guardi che è pericoloso portare i bambini così al largo. -
Lei mica glielo dice che i bambini non sanno nuotare e che hanno uno due anni e l’altro poco più di tre.
-Fabio, ci sei tu apposta, no? C’è scritto bagnino di salvataggio no? Casomai ci salvi. -
Pochissime estati dopo, con due amiche mamme, decise di prendere in affitto una cabina a “La Bicocca”. In totale erano sette bambini, praticamente un kinderheim. Il bagnino Hassan era molto comprensivo, controllava i pargoli quando le mamme erano troppo affrante per non distrarsi, gonfiava canottini e raccattava giocattoli e mini ciabatte dimenticate attorno all’ombrellone più popolato di tutta la spiaggia.
A ripensare a quelle estati, ora che i figli sono grandi e vanno al mare per conto loro, ha dei pericolosi guizzi di nostalgia. E dire che all’epoca le sembrava che il periodo dei pannolini da cambiare dovesse non finire mai.
Quando i piccoli andavano già a scuola, lei si spostò quasi alla fine della litoranea. Lo stabilimento si chiamava “L’Ancora”, era piccolo e raccolto e a lei sembrava di vivere in una grande famiglia. La cosa era consolante, dal momento che quella fu l’estate che sigillò la drammatica fine del suo matrimonio. Nel nome dello stabilimento balneare lei ci vedeva un segno, un simbolo, un consiglio divino, o forse soltanto marinaro, e decise così di salvarsi.
Ora sulla battigia sta passando un gruppetto di ragazze tedesche, canottiere e jeans arrotolati, la pelle bianchissima e i capelli biondi, ridono incredule di tanto sole e tanto mare e sembra vogliano assaporarne il più possibile. Tedesche …. suo padre era con una tedesca quando incontrò sua madre per la prima volta, Lui, il suo bellissimo papà, era il dirigente dell’Enalc Hotel, la prestigiosa scuola alberghiera, all’epoca famosa in tutto il mondo. Si concesse una pausa dal lavoro ed entrò nel bar di fronte, quello del Kursaal, avvinghiato ad una Barbie teutonica, quando la vide. Sua mamma aveva una divisa blu con delle righine bianche sul colletto della camicia, era una donna complicata e gentile e, dietro la cassa, era intenta ad illustrare i prezzi di sdraio, ombrelloni e spogliatoi a due ragazzi. Suo papà si spostò dal bancone del bar alla cassa e invece di ordinare due Punt & Mes, ordinò un ombrellone e due sdraio. Può darsi che la Barbie teutonica l’abbia guardato sorpresa e lui,forte del fatto che le Barbie teutoniche comprendono poco o niente l’italiano, guardò sua madre come si guarda il tesoro più bello del mondo, poi le chiese se quella sera era libera. Probabilmente sua mamma avvampò e forse le disse qualcosa del tipo “Abbiamo soltanto ombrelloni in terza fila. Vuole anche l’ingresso in piscina? Alla signorina potrebbe piacere…” . Probabilmente quest’ultima cosa la disse con un filo di sarcasmo e guardandolo dritto negli occhi. Probabilmente fu lì che suo papà decise all’istante che quella e nessun’altra sarebbe stata la madre dei suoi figli. Sicuramente la povera Barbie teutonica venne congedata in brevissimo tempo visto che i due, esattamente otto mesi più tardi, erano marito e moglie, e tali rimasero finché morte non li separò.
Ora lei sta pensando che se non ci fosse stato il Kursaal, forse non sarebbe qui. Non ci sarebbe proprio. Magari suo papà avrebbe sposato Brigitte o come cavolo si chiamava la Barbie di Germania e, forse, sarebbe andato a prendere l’aperitivo al Gambrinus o al Venezia e magari avrebbe sposato un’altra cassiera.
“Sliding doors…Chissà come sarebbe potuta andare”, pensa mentre fa scorrere la sabbia tra le dita. Poi pensa che anche loro, come lei e tutti gli attori della commedia della sua adolescenza volevano cambiare il mondo. Invece è accaduto che il mondo ha cambiato loro e che loro l’hanno permesso.
Ora quella folla di ragazzini vocianti, è tutta intorno a lei e lei li riconosce tutti, uno ad uno, e loro riconoscono lei, ci sono tutti, ma proprio tutti, anche quelli che erano volati via. E allora pensa che sì, che invecchieranno insieme, saranno dei vecchi bellissimi, forse troppo sentimentali, e giocheranno a tirarsi l’acqua sulla spiaggia, vecchi e vecchie, e rideranno degli stessi ricordi, rideranno di loro e guarderanno con insopportabile saggezza una comitiva di ragazzini che si rincorrono per buttarsi in acqua, schizzando tutti intorno, garruli come gabbiani, con la stessa convinzione di cambiare il mondo.