Un paio di settimane fa, John Petrucci se ne è uscito con una dichiarazione d’insofferenza nei confronti della scomparsa del supporto fisico musicale. Secondo lui, il non aver più materialmente tra le mani un disco e, conseguentemente, il non dover compiere più quei gesti rituali legati all’ascolto, ha depauperato il modo stesso di vivere la musica, svilendone il valore artistico e simbolico. Ha ragione da vendere, tanto da rasentare l’ovvietà; ed è un argomento che, suppongo, tutti abbiamo affrontato almeno una volta con lo sconforto e la rassegnazione che noi fratelli del vero metal abbiamo nei confronti delle magnifiche sorti e progressive di questo triste mondo malato.
Mi è venuta in mente questa cosa nell’accingermi a scrivere questa recensione perché gli Omnium Gatherum sono uno di quei gruppi che, per essere apprezzato, necessita di un ascolto concentrato e scevro da altre occupazioni. I loro due capolavori, The Redshift e New World Shadows, mostrano tutta la propria bellezza se ascoltati in cuffia, al buio, pazientemente, via dalla pazza folla. Come già detto nella recensione del precedente Beyond, i finlandesi riescono a creare un’atmosfera di solitudine cosmica, e intendo letteralmente: sembra spesso di vivere il punto di vista di un uomo che galleggia nello spazio e osserva l’universo da una prospettiva di isolamento assoluto. È una fascinazione estetica, senza dubbio, anche legata materialmente all’uso delle tastiere e dell’esplosione ariosa dei climax, ma anche una sensibilità strettamente legata a un senso di estremo straniamento dal secolo, come se ci si sentisse davvero a proprio agio solo in estrema solitudine fisica e spirituale. Anche laddove si parli d’amore, si ha un contesto completamente isolato dal mondo, come in una bolla d’aria vagante nel vuoto in cui solamente ci si possa sentire liberi di essere sé stessi; per questo l’amata vagheggiata in pezzi come Greeneyes o A Shadowkey (da The Redshift) assume contorni irrealistici e quasi divinizzati: perché non c’è nulla di davvero aderente alla realtà, che anzi è completamente rigettata a causa di questo profondo senso di incomprensione ed inadeguatezza.
Questo per contestualizzare la band, di cui non ho mai davvero parlato approfonditamente e che in passato ha realizzato cose che non hanno purtroppo raccolto il favore che meritavano. Non si può dire lo stesso per questo Grey Heavens, settimo album dei finlandesi, che come il precedente Beyond tradisce un mostruoso tracollo stilistico; ed è un problema sia di esaurimento della spinta creativa che di inaridimento della vena compositiva. Il disco si apre con The Pit, peraltro forse la più gradevole del lotto, che sembra un tentativo di copiare quanto di buono fatto in passato ma senza nerbo né troppo convincimento. La successiva Skyline, col suo ritmo saltellante e allegrotto, potrebbe essere definita la Only For the Weak degli Omnium Gatherum, con tutto ciò che comporta. Il resto del disco, forse a parte il singolo Frontiers, è ampiamente trascurabile e scorre via senza lasciare nulla, con dei momenti di fastidio a causa soprattutto della della chitarra solista, il cui troppo risalto autoreferenziale finisce per spoetizzare tutto. Non c’è più fascino, non c’è più emozione, non c’è più l’atmosfera che li aveva resi unici, non ci sono più neanche le canzoni, come se l’equilibrio si fosse spezzato e il giocattolo si fosse, forse irrimediabilmente, rotto. E purtroppo stavolta neanche l’ascolto solitario e al buio riesce a salvare la situazione. Sarà per la prossima volta, speriamo.