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Omofobia, ecco le nuove regole per i giornalisti

Creato il 06 febbraio 2014 da Alessandro Zorco @alessandrozorco

Esiste una linea sottile tra la giusta condanna di qualsiasi forma di omofobia, che rispetta le scelte di vita e l’orientamento sessuale di ciascuno, e la libertà di manifestare il proprio pensiero sulla vita, sulla procreazione e sulla sessualità. Una linea che deve essere ben presente a chi fa informazione su questi temi sensibili e a chi ne detta le regole. Il Codice deontologico e la Carta dei doveri dei giornalisti sanciscono l’inderogabile obbligo di rispettare la dignità di ogni persona e non discriminare nessuno per razza, religione, sesso, condizione mentale o fisica, opinione politica. Ma le prescrizioni a tutela della libertà sessuale e contro l’omofobia rischiano adesso di diventare molto stringenti. Lo scorso 11 dicembre 2013 il ministero delle Pari opportunità ha presentato un documento, Linee guida per un’informazione rispettosa delle persone LGBT, che stabilisce dieci regole che il giornalista è tenuto a rispettare quando parla di Lesbiche, Gay, Bisessuali e Transessuali: LGBT. Per ora si tratta di semplici “consigli” per «comunicare senza pregiudizi» su queste tematiche, ma in futuro potrebbero diventare dieci veri e propri comandamenti anti-omofobia che il giornalista sarà tenuto a rispettare per non incorrere in una sanzione disciplinare.

Le linee guida contro l’omofobia

Omofobia
Ecco, in sintesi le Linee guida per i giornalisti contro l’omofobia, presentate dal ministero per le Pari Opportunità dopo un ciclo di incontri organizzato dall’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (Unar) in collaborazione con Redattore Sociale e con il patrocinio dell’Ordine nazionale dei giornalisti e della Federazione nazionale stampa italiana.

Questo è il documento integrale contro l’omofobia: Linee guida UNAR giornalisti

TERMINOLOGIA. Innanzitutto i giornalisti sono esortati ad approfondire e scegliere i termini più appropriati. Le Linee guida contro l’omofobia fanno una netta distinzione tra il sesso biologico e il genere, cioè quel complesso di elementi psicologici, sociali e culturali che determinano l’essere uomo o donna. «L’identità sessuale – si legge nel docimento contro l’omofobia – è composta da quattro fattori: sesso biologico, identità di genere, orientamento sessuale e ruolo di genere, tutti elementi dell’identità individuale che si possono combinare in molteplici modi dando luogo a configurazioni inaspettate». In particolare le Linee guida tengono a precisare che «è da evitare l’idea che essere gay o lesbica o bisessuale è una scelta che si può rivedere o cambiare, magari con l’aiuto di terapie. L’orientamento omosessuale o bisessuale, così come quello eterosessuale non è una scelta, e pretendere di modificarlo può causare gravi conseguenze sul piano psichico alle persone coinvolte».

OUTING E COMING OUT. Le Linee guida contro l’omofobia – sempre sul piano terminologico – distinguono tra l’outing (cioè il rivelare l’omosessualità altrui) e il coming out (ovvero il rivelare la propria omosessualità). I due termini, si legge nel documento, sono regolarmente confusi dai media, ma solo il coming out (da coming out of the closet che significa letteralmente “uscire dall’armadio”, ovvero uscire allo scoperto) viene visto con una accezione positiva in quanto «rappresenta tutto il percorso che una persona compie per prendere coscienza della propria omosessualità, accettarla, iniziare a vivere delle relazioni sentimentali e dichiararsi all’esterno». Le Linee guida invitano poi i giornalisti a superare il «luogo comune del “gay esibizionista”», valorizzando invece il racconto di storie che testimoniano il senso dell’accettazione di sé e promuovono la «trasformazione di atteggiamenti e comportamenti verso le differenze della società in cui si vive».

IL TERMINE LESBICA. Sempre nell’ottica della lotta all’omofobia, le Linee guida cercano di riabilitare il termine “lesbica” che, si legge nel documento, «nei media è percepita erroneamente come una parola dal vago senso offensivo». L’esortazione a chi fa informazione è invece questa: «Fare entrare la parola lesbica nell’uso comune e nel linguaggio dei media, liberandola da connotazioni dispregiative o voyeristiche, è un passo importante verso il riconoscimento dell’omosessualità femminile e l’attribuzione di diritti alle donne che desiderano e amano altre donne». Per questo, si consiglia ai media di evitare aggettivi tipo “lesbo” o “saffico” che più che alla libertà sessuale richiamano atmosfere pornografiche o lascive.

PERSONE TRANSESSUALI.  Le Linee guida contro l’omofobia cercano di sdoganare anche il termine “transessuale”, che spesso – si legge, viene accostato in senso dispregiativo alla prostituzione. Il documento invita inoltre i giornalisti a scegliere oculatamente il tipo di articolo (maschile o femminile) da usare per identificare le persone transessuali. «L’errore più diffuso nel giornalismo – dice il documento – riguarda l’attribuzione del genere grammaticale al soggetto transessuale. Le persone che sui giornali sentiamo continuamente chiamare I trans in realtà sono LE trans. Tra l’altro, quelle di cui si parla di solito hanno tutta l’apparenza di soggetti femminili: le foto spesso ritraggono lunghi capelli, tacchi alti e minigonne. Dovrebbe venire spontaneo attribuire il femminile, e invece le contraddizioni, anche grammaticali, abbondano». Insomma, prosegue il documento anti-omofobia, «per la transessualità vale il principio dell’identità. Se la persona di cui si parla transita dal maschile al femminile, non importa in che fase della transizione si trovi, né se si sta sottoponendo all’iter della riassegnazione chirurgica del sesso, se lei sente di essere una donna va trattata come tale. Come principio, quindi, è corretto utilizzare pronomi, articoli, aggettivi coerenti con l’apparenza della persona e con la sua espressione di genere. Quando questo risulta difficile al/alla giornalista, la soluzione è denominare la persona nel modo in cui preferisce essere appellata. E infine, sarebbe bene ricordare sempre che appunto di persone stiamo parlando: piuttosto che il/la trans o il/la transessuale, parliamo di “persona transessuale”».

FAMIGLIA OMOGENITORIALE. La sesta regola tratta il tema scottante della famiglia e del matrimonio tra persone dello stesso sesso.

Omofobia - Famiglie arcobaleno
Secondo le Linee guida, il giornalista deve stare particolarmente attento e deve trattare questi due istituti della famiglia e del matrimonio sotto una luce diversa da quella tradizionale. Le linee guida evidenziano innanzitutto come l’Italia sia «l’unico paese in Europa, insieme alla Grecia, che non prevede alcuna tutela per le coppie omosessuali: né una disciplina delle unione di fatto (o unioni domestiche, partnership domestiche, partnership registrate, unioni di vita, Pacs…), né l’istituto del matrimonio tra persone dello stesso sesso». I giornalisti, stando alle Linee guida, sono comunque tenuti ad evitare di parlare “famiglia gay” o “famiglia omosessuale” per indicare il nucleo con genitori dello stesso sesso, in quanto ciò comporterebbe – si legge nel documento – «il rischio di trasferire l’omosessualità dai genitori su tutti i componenti, rafforzando il luogo comune per cui chi viene cresciuto da una coppia di gay o di lesbiche è destinato a sviluppare a sua volta un orientamento omosessuale. Un luogo comune che le scienze sociali continuamente smentiscono. Meglio quindi riferirsi ai genitori e parlare, per le famiglie in cui questi sono due uomini o due donne, di “famiglie omogenitoriali”, oppure famiglie con due papà, due mamme. Meglio ancora parlare, semplicemente, di famiglie». Le Linee guida contro l’omofobia bandiscono invece il termine “famiglie tradizionali” per indicare le famiglie in cui i genitori appartengono a due generi diversi. «Si sente spesso parlare di famiglie tradizionali, per lo più in funzione oppositiva rispetto a quelle omogenitoriali. Ma tradizionale corrisponde sempre meno alla pluralità di esperienze che compongono le vite familiari, in cui sono compresi i nuclei monogenitoriali, quelli divisi dal divorzio, quelli ricostruiti ecc. L’uso di famiglie al plurale, di cui ci sono ottimi esempi anche nel giornalismo, segna l’adozione di un punto di vista inclusivo di tutte le differenze, dove a fare da trait d’union tra le varie manifestazioni dell’idea di famiglia sono i concetti di legame stabile, amore, cura, responsabilità… Per lo stesso motivo si può parlare di matrimoni, quando ci riferiamo all’unione di persone dello stesso sesso, anziché di matrimoni gay».

UTERO IN AFFITTO. Altri temi scottanti trattati dalle Linee guida contro l’omofobia sono quelli dell’adozione e della cosiddetta maternità surrogata. Secondo le Linee guida il giornalista dovrà accuratamente evitare l’espressione «uteri in affitto» ma dovrà parlare di «aspirazione della coppia gay o lesbica ad avere un proprio figlio». «In realtà – si legge nel documento – nei media, l’espressione più usata per parlarne è “utero in affitto”, che ha però un valore spregiativo, contiene in sé un giudizio negativo, sia sulla donna che porta avanti la gravidanza per altri sia su coloro che le chiedono di farlo. Giornalisticamente, quindi, è una locuzione scorretta perché non è neutra, non lascia spazio all’indagine o alla formazione autonoma di un’ opinione».

TIC OMOFOBICI. Il documento stigmatizza inoltre quelli che vengono definiti tic omofobici dell’informazione. Eccoli:

  • «ESPERTI – Quando si parla di tematiche LGBT, c’è la tendenza a consultare esperti o giornalisti che non siano gay o lesbiche o transessuali/transgender loro stessi, quasi che questa condizione rendesse chi parla meno affidabile, in quando mosso dall’emotività (che è un pregiudizio ricorrente nei confronti delle persone LGBT).
  • INTERLOCUTORI – Quando un tema collegato alla condizione delle persone LGBT diventa di attualità, i giornalisti vanno in cerca di persone note che funzionino da interlocutori sul tema. Manca l’abitudine a consultare le associazioni che lavorano ampiamente su questi temi.
  • SPECIALISTI – La tendenza ad affidarsi a specialisti (es. psicologi o psicoanalisti) ha l’effetto depoliticizzare le questioni inerenti i diritti LGBT. Per esempio, parlando di omogenitorialità gli esperti di varie discipline potranno riferire sul buono o cattivo funzionamento di queste famiglie, ma non possono contribuire alla riflessione pubblica, politica sul tema, che non riguarda solo le persone LGBT ma la società tutta.
  • CONTRADDITTORIO – Quando si parla di tematiche LGBT, è frequente che giornali e televisioni istituiscano un contraddittorio: se c’è chi difende i diritti delle persone LGBT si dovrà dare voce anche a chi è contrario. Questo, però, non è affatto ovvio». La spiegazione di questo concetto sta nella citazione dello scrittore Tommaso Giartosio riportata dalle Linee guida. «Cosa deve accadere affinché il contraddittorio tra favorevoli e contrari ai diritti per le persone gay o lesbiche non sia più necessario – scrive Giartosio -? Mettiamola così: quand’è che un tema non richiede più il contraddittorio? Molti temi, per esempio il divorzio, un tempo lo richiedevano ma oggi non più. Non esiste una soglia di consenso prefissata, oggettiva, oltre la quale diventa imprescindibile il contraddittorio. La scelta è puramente politica. È una scelta di valore, e di valori».

IMMAGINI. Nelle Linee guida anti-omofobia c’è anche un capitolo dedicato alla scelta delle immagini corrette da utilizzare per illustrare notizie e reportage che riguardano le persone LGBT. «Sono purtroppo numerosi i casi in cui a testi che riguardano l’omofobia, le discriminazioni, i diritti, le trasformazioni sociali sono associate immagini del tutto inappropriate – si legge nel documento – . Queste normalmente ritraggono parate o altri momenti di esibizione pubblica di corpi, nudità, identità; scene di intimità tra persone dello stesso sesso; locali e discoteche “gay friendly”; luoghi di incontri come saune o dark room. Uno spazio particolare occupano gli LGBT PRIDE, che per molti anni sono stati una delle poche (se non l’unica) occasione di visibilità delle persone LGBT in Italia [...] Ad attirare giornalisti e fotografi sono state sempre le figure più trasgressive, luccicanti, svestite, ed è così che si è prodotto e riprodotto un immaginario intorno a queste manifestazioni che di anno in anno, già attraverso le immagini che le annunciano, mette in secondo piano il tema dei diritti».

I DISCORSI D’ODIO. Per evitare infine di dare spazio all’omofobia e ai «discorsi d’odio», il giornalista è tenuto ai seguenti comportamenti virtuosi:

  • «virgolettare i discorsi o parte di discorsi di personalità pubbliche che incitano all’odio contro le persone LGBT, usando particolare attenzione nella titolazione»;
  • «avere cura di ricercare fonti e dati che contestualizzino e forniscano informazioni attendibili e verificabili sui temi e gli argomenti delle dichiarazioni»;
  • «riferirsi se necessario alle corrette definizioni dei termini ed effettuare – in casi di confusione nei discorsi – le dovute distinzioni (per esempio tra omosessualità e transessualità)»;
  •  «fare attenzione nella scelta delle immagini, affinché non rafforzino gli stereotipi negativi veicolati dai discorsi pubblici riportati nell’articolo»;
  • «avere una lista di risorse informative a livello nazionale e locale – esperti di tematiche LGBT, rappresentanti di associazioni e coordinamenti – da utilizzare per avere in tempi rapidi dichiarazioni che permettano una composizione bilanciata del servizio».

Il dibattito è aperto

Questo articolo ha la finalità di esporre senza alcuna presa di posizione, ma con l’apertura a tutti i contributi seri un documento, le Linee guida contro l’omofobia presentate lo scorso dicembre dal ministero delle Pari Opportunità, che stabilisce dei paletti stringenti all’attività giornalistica e che, se reso obbligatorio, è destinato a far discutere l’opinione pubblica perché mette in gioco i valori più profondi in cui ognuno di noi crede. Ovviamente, visto l’aspro dibattito esistente in Europa e in Italia su questi temi (nei giorni scorsi il Parlamento Europeo ha approvato la controversa relazione Lunacek sul matrimoni di persone delle stesso sesso e sull’educazione sessuale nelle scuole, mentre in Italia la legge contro l’omofobia, dopo il primo passaggio alla Camera, è ora in fase di approvazione a Palazzo Madama), la sola predisposizione delle Linee guida contro l’omofobia – come era prevedibile – ha già suscitato moltissime polemiche. Immediatamente i senatori del Nuovo Centrodestra, primo firmatario Carlo Giovanardi, hanno presentato una interpellanza al presidente del Consiglio dei Ministri Enrico Letta per contestare la legittimità dell’autorità che sta dietro il documento contro l’omofobia. In particolare viene messa in discussione l’attività dell’Unar, l’ufficio insediato presso il Dipartimento delle Pari opportunità che nell’aprile 2013 ha promosso, era ministro del Lavoro Elsa Fornero, la discussa Strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere 2013-2015 che prevede l’educazione di genere nelle scuole. L’Unar è infatti nato nel 2003 con la sola funzione di combattere contro le discriminazioni di natura etnica e razziale mentre la sua competenza è stata estesa negli anni successivi fino a darle un ruolo di primo piano nella lotta contro l’omofobia. Ma al di là delle inevitabili polemiche su un tema sensibile che da anni sta spaccando l’opinione pubblica (esiste anche una petizione online che chiede il ritiro delle Linee guida contro l’omofobia), la questione dirimente sarà quella di riuscire a contemperare la tutela dei diritti di tutti, delle persone omosessuali come di quelle eterosessuali, con il sacrosanto diritto di ciascuno di esprimere, con il dovuto rispetto per tutte le scelte consapevoli, la propria opinione di famiglia, di coppia, di sessualità e di procreazione. E’ una linea molto sottile e delicata che qualsiasi regola deontologica dovrà definire con chiarezza per evitare il rischio di un nuovo Minculpop che voglia monopolizzare gli orientamenti culturali e censurare la libertà di espressione del pensiero.

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