Talvolta, nella lingua italiana, sono le regole più banali a essere meno rispettate quando parliamo. Un caso tipico è costituito dagli omografi, ovvero le parole che sono scritte in maniera uguale ma che hanno un significato diverso a seconda della pronuncia.
La distinzione fra e e o aperta o chiusa, nella sua pronuncia, rappresenta un fatto di proprietà d’espressione: purtroppo la fonetica regionale di noi italiani non aiuta. Sono, in particolare, i Toscani che riescono a percepire con più naturalezza la distinzione, anche se di recente il livellamento su 5 vocali invece che su 7 è sempre più diffuso.
Oggi qualche esempio con la e chiusa e la e aperta.
La téma (paura) o che io téma NON è il tèma.
Il ménto NON è io mènto.
L’ésca NON è che io èsca.
Il numero vénti NON è i vènti (plurale di vento).
La ménte NON è egli mènte.
Lui colléga NON è un collèga.
L’accétta (la scure) NON è egli accètta.
Che lui corrésse (da correre) NON è egli corrèsse (da correggere).
La pésca (dei pesci) NON è la pèsca (frutto).
Le mésse (plurale di messa) NON è la mèsse (la raccolta dei cereali).
L’affétto (da affettare) NON è l’affètto (sentimento, ammalato).
La légge (norma) NON è egli lègge (da leggere).
Néi (preposizione articolata) NON è i nèi (macchie sulla pelle).
Le vendétte (plurale vendetta) NON è vendètte (da vendere).
L’aréna (sabbia) NON è arèna (teatro).
Io crédo NON è il crèdo (preghiera).
Il té (bevanda) NON è tè (pronome).
Il ré (sovrano) NON è il rè (nota musicale).
Il détto (da dire) NON è io dètto (da dettare).
Déi (preposizione articolata) NON è gli dèi (divinità).
Mézzo (fradicio) NON è il mèzzo (metà, strumento).
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