Il meranese Alessandro Banda è l’autore altoatesino più bravo e dunque meritatamente noto anche al pubblico nazionale. Ha già pubblicato diverse opere per importanti editori italiani (tra le altre: “Dolcezza del rancore”, uscito nel 2001 da Einaudi, e “Come imparare a essere niente”, del 2010 per i tipi di Guanda). Il critico Giovanni Pacchiano ha scritto di lui: “Abbiamo un debole per quell’ultimo dei Mohicani che è Alessandro Banda, narratore citazionista coltissimo, di coinvolgente vena satirica, ma non solo… La sua terra è solo il grande libro della letteratura”. Con il suo ultimo libro (“Due mondi e io vengo dall’altro”, in uscita da Laterza il prossimo giovedì), lo scrittore abbandona provvisoriamente questa sua terra elettiva e letteraria per confrontarsi con il nostro piccolo mondo altoatesino-sudtirolese.
L’Alto Adige è una provincia alla quale sono stati già dedicati centinaia di libri. Qual è il motivo che l’ha portata ad aggiungere anche il suo?
È molto semplice: me l’hanno chiesto e, dato che potevo dargli un taglio autobiografico, ho accettato: ogni sudtirolese potrebbe scrivere un libro analogo.
Un taglio autobiografico presuppone il riferimento a un vissuto individuale. Ma nessun vissuto, per quanto individuale, alla fine riesce a prescindere da schemi percettivi che interpretano un riferimento culturale comune a più individui. Ora, In Alto Adige viviamo notoriamente all’interno di una realtà culturalmente sdoppiata (i “due mondi” del titolo del suo libro). Alludendo a una provenienza “altra” rispetto a questi due mondi, pare che lei voglia suggerire l’esistenza di un punto di vista (e dunque anche di un mondo?) innovativo. Di cosa si tratta?
Il titolo è una citazione da una poesia di Cristina Campo, per quello è tra virgolette. Non vuole alludere a un punto di vista altro, o innovativo. Ma a un’estraneità perenne, di uno che non è mai a casa, anche se non essere a casa in alcun posto, per lui (cioè per me), non è male, non è poi così male. Anzi è addirittura un bene. Come per Cristina Campo, esprimendo il desiderio di un altrove irraggiungibile, tipico dei mistici. In Alto Adige, un tempo era tutto sdoppiato. Ora non ci sono più solo due o tre soggetti, ce ne sono quattro, cinque, sei, molti altri, com’è noto. E questo fa sentire gli schemi percettivi soliti di colpo invecchiati, inservibili.
Il non sentirsi a casa in nessun posto è magari una condizione affascinante per l’artista o l’intellettuale deraciné. Non teme però che – considerando la condizione storica e sociologica un po’ da “spaesati” degli altoatesini – questo possa fornire un’ulteriore giustificazione, seppur di “alto profilo”, a quegli italiani locali che rifiutano di sentirsi parte di questa terra?
No, non credo. Nessuno può rifiutarsi di sentirsi parte della terra dove abita. Anche il “rifiuto” non è che un tipo particolare di relazione con qualcosa, anche con una terra. A parte ciò, il mio non è un discorso politico. Mi piacciono molto quei testi cristiani delle origini, dalla Lettera a Diogneto alla Città di Dio di Sant’Agostino, che sottolineano come noi, noi umani, tutti, non siamo di questa Terra, o non siamo solo di questa Terra, o lo siamo e non lo siamo. E comunque non siamo “servi della gleba”.
Avviciniamoci al testo. È possibile condensare in poche parole l’immagine dell’Alto Adige visto dalla prospettiva “misticheggiante” che lei delineava in precedenza? In modo più spiccio: quali contorni particolari assume l’Alto Adige nel suo libro?
Detto davvero in due parole: non è un inferno, non è nemmeno un paradiso, è un onesto purgatorio, come molti altri posti. Perché, questa, mi pare proprio la caratteristica specifica dell’Alto Adige odierno (riflesso in “Due mondi”): la perdita di specificità. Il plurilinguismo che lo caratterizzava un tempo, per esempio, è diventato comunissimo a tanti altri luoghi.
Un luogo che dunque perde specificità, che ormai comincia ad assomigliare a qualsiasi altro luogo, eppure ancora caratterizzato da uno status di sorvegliata specialità. È questa la contraddizione che sta alla base del “complesso del provinciale” di cui lei parla nell’ultimo capitolo?
Penso che il complesso del provinciale sia un complesso che si può provare ovunque, perché la Provincia, intesa quasi come categoria dello Spirito, esiste dappertutto, e ciò contrariamente a quanto si crede in genere. Cioè: altro che globalizzazione! Altro che connessione immediata di qualsiasi punto a qualsiasi altro punto. La Provincia esiste, esiste, esiste, più forte e robusta e invincibile che pria. E’ prima di tutto un’esperienza, quella della Provincia, e poi anche una teoria, delirante, ma che prende le mosse da un saggio molto citato, molto noto (e molto brutto) di Walter Benjamin (L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, ndr). Qui non aggiungo altro, ma leggere per credere.
Per finire sbirciamo oltre il bordo di questo libro. Alla fine di settembre uscirà il suo nuovo romanzo. Ci sarà anche qui un riferimento all’Alto Adige? Può anticiparci qualcosa?
No, niente Alto Adige. Il libro è di argomento romano antico; esce a settembre per Guanda, il titolo è “L’ultima estate di Catullo” ed è appunto un lungo sogno sulla figura di Catullo, poeta affascinante ed enigmatico.
Corriere dell’Alto Adige, 3 luglio 2012