Da quanto tempo guardiamo i “films”? E quanti di noi si definiscono cinefili, non tutti, a onor del vero, perfettamente titolati per incoronarsi tali?Ricordi di bambina. I primi western, il sogno americano, le lunghe strade percorse da avventurieri e sbandati di ogni risma, dive laccate, lo skyline della Grande Mela, che cambia sempre ed è sempre uguale, i vezzi da Actor’s Studio. Altre memorie si affacciano: nouvelle vague, grottesche pellicole iberiche, dure e opprimenti storie tedesche, surreali trame inglesi, la scuola Dogma di scandinavo ermetismo, quasi nulla dell’Est europeo, pochissimo di africano, il Bollywood dove si canta e si balla più di quanto non si reciti, e i nostri colonnelli romani, ciociari, partenopei, Cinecittà del miracolo.
Parlarsi in codice, con le frasi di Woody o le battute di Belushi. Coproduzioni zeppe di star in declino, di oscuri registi o famosi sotto pseudonimo (Alan Smithee, invenzione per celare una probabile toppata), la generazione Matrix, remake, prequel e sequel, contemporaneo italiano. Entrare in sala sempre più smaliziati e con poche speranze di emozionarsi, gli anni passano, scopriamo i trucchetti con cui i marpioni d’oltreoceano mascherano la propaganda o il politically correct, mai due persone di colore troppo diverso, il cattivo ha la macchina europea e fuma, Sophia Loren che fa la faccia da Doris Day, le pretty woman dove l’Hollywood Boulevard sembra un sogno, invece dal vivo è una miseria.
Una domenica come tante, un Philip Seymour Hoffmann che non somiglia a Richard Gere e attacca con una scopata da levare il fiato, la rapina a mano armata in un centro commerciale a Westchester, che anche questa è New York o giù di lì, e ti ergi sulla sedia dove già ti stavi accomodando senza pretese di appassionarti, troppo tardi, pensavi, neanche il maestro Lumet può fare il miracolo.Sidney ha ottantaquattro anni quando ci regala questo capolavoro e subito dopo ci saluterà. Sono lontani i tempi di un gioiello come “Il gruppo”, storie di ragazze bene con la testa piena di cultura, sogni e sesso proibito, e un Larry Hagman già cattivo marito, sarà da quella volta che qualcuno lo avrà studiato per fargli interpretare J.R. Ewing.
Dicevano che Sidney sfruttasse troppo gli attori, li lasciasse soli con i personaggi in cui dovevano calarsi a furia di talento, lacrime e sangue. Meglio così, li apprezziamo per quello che valgono, penso io mentre le immagini mi catturano e dimentico il passare del tempo, quella sensazione che ti fa disperare quando escono i titoli di coda e tu resti ancora con la testa nella storia.
Non c’è una colonna sonora clamorosa, è una cadenza lenta, un suono soffuso e leggermente ipnotico, piccoli flash back non disturbanti, c’è uno che fuma ma toh, questa volta è il buon pater familias, la tecnica è impeccabile e non fa rimpiangere le avanguardie che, uffa, che palle, come ti seccavi a veder girare la cinepresa: lo sguardo, te lo deve regalare il regista, il mio già vaga abbastanza nella vita.
NYC non è più la stessa, aleggia sempre il prima e dopo come con Cristo, le Torri forse erano orrende, ma ti davano uno stacco tra un tempo precedente, tutto ancora Broadway, Chorus Line e Uomo da marciapiede, e quello successivo di “Febbri del Sabato sera”, Tootsie e Donne in carriera, ora stiamo già nel futuribile, è una città spezzata, impaurita, insicura, non da più ebbrezza, ma una felicità precaria e riflessa dai grattacieli dove lavorano per fregarti, indebitarti, imprigionarti nei tuoi vizi di sempre, ma ora meno trasgressivi, solo tristi, perché al sogno non crede più nessuno.
La famiglia, questo totem con cui l’America ti stordisce ancora, anche quando la cambia e non fa più moglie felice, bambini e marito vincente. Molto forte, Incredibilmente vicino, giovani scrittori ebrei sempre pronti a illustrarti la difficoltà della metropoli, guarda lì, tra una felice coppia gay, qualche donna col velo e i nuovi chassidim, fai fatica a riprenderti, perchè in fondo quel posto è il più vecchio dei miraggi con cui ti hanno illuso e non è vero che è la città dei cambiamenti, ora è cambiata davvero e resti allocchito, il tassista pakistano non conosce bene la destinazione che gli hai chiesto e gli italoamericani ti guardano con sospetto, sarai mica uno di quegli europei che non ci vuole più bene?
Ethan Green Hawke (Austin, USA, 6 novembre 1970)
Non c’è redenzione, non si fanno sconti. La finta ricchezza, l’affetto formale, non salvano i figli dalle tragedie da cui i genitori credevano di preservarli, questi anziani gelidi che non si commuovono quando Ethan Hawke viene pressato con le richieste di denaro della sua unica figlia e della ex sprezzante consorte, e non si sognano di aiutarlo, i fratelli si parlano poco e si tradiscono, la sorella appare e scompare, sconsolata.
Amori mercenari e paradisi artificiali con vista sull’Empire ingannano: a nessuno interessa il tuo dolore, paga la tariffa e vattene, fuori è pieno di strizzacervelli che ti aspettano…e di ricattatori che non si commuovono, di trafficanti che conservano tracce dei tuoi misfatti meglio della distratta Polizia, tolleranza zero con le bande di latinos, ma non con il delinquente che è dentro ognuno di noi, in cui ci identifichiamo, l’iconoclasta decadente che arretra davanti al mondo terzo, quarto e quinto che lo invade e lo commisera. America, Amerika, noi ti bramiamo sempre perché sei malata, altrimenti rimarremmo nel nostro tugurio a marcire del male nostro, puro, non contaminato.
Sì, che alla fine tifi per lui, mentre semina morte e terrore: non ha scelta. Quanto sbagli l’incipit, una vita non la raddrizzi più, c’è poco da discutere. Vai e uccidi. Vai e muori, e pace sarà.
Quando esco dal cinema provo la stessa sensazione che mi danno le musiche inglesi o a stelle e strisce. Posso non capirci un’acca, e succede perchè tradurre è una vaccata, o capisci o nisba, ora poi con quei testi rappati, anzi nemmeno più quelli, mica arriva più nessuno in hit parade, abbiamo solo gli amici di Maria e qualche Rihanna, ma insomma, ai miei tempi, pensavo, queste sensazioni in Italia, non me le da nessuno, amo Battiato e De Gregori, ma alla fine scelgo i Nirvana e i Dire Straits; così, mi intenerisco fino alle lacrime davanti a La Strada di Federico, ma una sberla così, che mi fa vibrare di rimpianto e rimorso, un orgasmo della mente, forse solo l’Agnus dei di Rossini, forse.
Sidney Lumet (Filadelfia, 25 giugno 1924 – New York, 9 aprile 2011) è stato un regista, produttore cinematografico e sceneggiatore statunitense.
Hai onorato il padre e la madre? Avremo più un padre da uccidere e una madre da fottere, come urlava freudianamente Jim Morrison? Abbiamo avuto il privilegio di contestarli, detestarli, urlargli addosso la nostra diversità e le distanze che ci separavano, dopo c’è solo il crash, senza mediazione, perchè anche l’odio è un grande diplomatico. Grazie Sidney Lumet, RIP, non potevi andartene meglio.
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