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Onoranze

Da Occhidadonna

Chi c’era già, chi è arrivato cinque minuti dopo, chi ha sbagliato per la fretta l’ingresso al reparto, chi è comparso per un attimo e poi niente, chi m’ha detto: «Ti sono vicino», ma ho guardato in giro e non l’ho più visto; chi ha urlato «No!», chi ha parlato con me tutte le notti e ha mandato giù anche il silenzio dirottato dentro al filo duro; chi non c’era, chi mi chiamava nei pomeriggi affollati e mi ascoltava ripetere in sequenza: la malattia, le diagnosi, le cure, l’ultima notte al microscopio, la mattina senza più la vita di mia madre.
Chi non mi ha mai lasciata sola, chi mi ha preparato da mangiare, chi mi ha imboccato valeriana, chi mi ha dimenticata, chi piangeva più di me. Chi è venuto a godersi lo spettacolo, chi si è seduto in un angolo ma mi hanno detto che c’era, chi è passato mezz’ora a mettere presenza, chi ha scritto un biglietto, un telegramma, una mail, un SMS, la veglia via WhatsApp; chi ha firmato il libro degli auto-invitati, chi ha portato i fiori morti, anche se a mia madre non piacevano; chi ha detto: «Qualsiasi cosa ti serva non esitare», a me che, da quando mamma non respira, non chiedo neanche che ore sono; chi mi ha accarezzata con un’umanità che ha mani più capaci della carne, chi mi ha vista crescere e ha imitato mamma per cinque minuti scarsi; chi ha informato gli amici, chi l’ha dimenticato, chi ha sbagliato giorno, chi non ha trovato l’indirizzo, chi ha telefonato cercando la Signora, chi è venuto al funerale, chi le ha fatto cerchio di madri intorno, un minuto dopo; chi non l’ha saputo, se l’aspettava o se l’è sognato; chi non poteva crederci, chi mi ha raccolta dal pavimento della stanzetta che m’ha fatta orfana, chi l’ha vestita, chi mi ha abbandonata, chi mi ha conosciuta venerdì, chi ha scavalcato un anno di silenzio per dirmi: «Mi dispiace» e ha rassettato la cucina per farmi comodo il digiuno; chi ha deciso quanti spazi mi servivano, chi mi ha detto: «Arrivo», e non s’è visto, «Ti telefono», e non s’è sentito; chi non voleva essere invadente, chi ha visto il suo film preferito, chi ha dormito con me sul divano per tre notti a guardarla spenta, chi mi ha prestato pensieri piccoli e amore gigante. Chi ha pregato per lei, chi ha maledetto il destino, chi mi ha detto che se avessi marito soffrirei meno, chi mi ha invitata ad aprire il mio cuore a Gesù, chi ha ricordato i suoi anni in sartoria, le feste in casa, l’ombretto azzurro, la resistenza, i modi di dire, l’esempio; chi mi ha detto che fare un figlio aiuta, chi ci guadagna, chi ha portato fazzoletti, mani per coprire il viso, una zuppiera di rigatoni al ragù, caffè – che serve – uova fresche da bere, la colazione, un rosario e cinque misteri; chi non se l’è presa se non l’ho riconosciuto, chi mi ha obbligata a mangiare, chi mi ha comprato sigarette e caramelle. Chi mi ha raccontato quando c’è passato e da fratelli li abbiamo pianti insieme; chi la mamma non l’ha mai avuta, chi ce l’ha ancora e se l’è abbracciata stretta quella sera; chi non festeggerà il Natale, chi se ne fotte delle feste, chi si scambia auguri di nascosto, chi mi promette il Paradiso, chi l’apparizione, chi mi dice di aspettare il tempo.

Li penso tutti così: senza nomi di santi, senza il prima. Li penso mentre mi girano intorno e io sono un perno spanato, un’asse pericolante. Da questo punto liquido d’osservazione, conosco tutti da capo, me da capo.
Il pianto è l’unica cosa vera.
Imparo come attraversano il mistero che ci fa uguali, come galleggiano sulla superficie di questo niente; come sostengono lo sguardo saturo, come scappano, come giustificano la loro ignoranza, come sanno ciò che imparano.
E amo chi non amavo, dimentico chi ricordavo, nutro amore per chi amavo, m’inginocchio a ringraziare chi mi ha stretto le mani, lo sconosciuto che mi presenta la pietà, lunghi sorsi d’abbracci, chi fa l’orlo alla distanza; e m’attacco all’amica che sta sveglia mentre dormo, mia sorella che trattiene il mio respiro, mio cognato che presta occhi se non riusciamo a guardare, mio fratello che non chiama più casa a ora di pranzo, e a me che ho le mani identiche a mia madre.
Quello che c’è stato prima lo guardo appena; quei piccoli dolori li ho già dimenticati, ho perdonato tutti quei peccati minuscoli, le ragioni dei pazzi, i millimetri di torto, le infinitesime bugie: fastidiosi mal di denti senza neanche un’infezione. Chiunque tu fossi prima che morisse lei, prima di queste notti di compassione, pelle grigia e occhi svuotati, è dall’altra parte.
Chi eri quando se n’è andata lei?
Chi sei quando la vita ti priva d’anestetico e la devi guardare a secco? Abiti la tragedia coi piedi dentro ai pozzi, o abbassi la testa per alleggerirti gli occhi? Come parli, con lo spavento in gola?
È così che ti chiamo. Quello è il tuo vero nome.


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