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Peccato che Open Windows, pur mostrando da un lato la progressione virtuosa di Vigalondo, dall’altro crolli sotto i colpi delle sue stesse armi, inciampando in un minutaggio esagerato e in una storia davvero poco, poco interessante quando l’energia per rialzarsi e proseguire poteva essere potente e inesauribile. Sì, è uno di quei film dove l’aspetto visivo è talmente prepotente da non lasciare spazio ad altro, e di tutti i modi in cui poteva essere venduto (come per esempio hanno fatto al S+F di Trieste portando l’ex pornostar a presentarlo) è stato eroicamente scelto solo quello forse più intimo, ovvero quello di una pellicola interamente ambientata sulla schermata di un PC, dove la camera si muove e zooma tra le finestre che di volta in volta mandano avanti l’intreccio. L’idea è ancora abbastanza nuova per poter lavorarci un po’, ci sono già stati degli esperimenti recenti ma tutto sommato è un valido spunto di partenza, o quanto meno uno che ancora incuriosisce soprattutto conoscendo l’estro di Vigalondo. La potenza visiva è infatti squisitamente disorientante e, almeno nella prima metà, parecchio carismatica, in quanto sembra quasi di avere a che fare con un (falso, certo) piano sequenza lungo cento minuti che si piega a volontà videoludiche parecchio importanti ed efficaci (frecce lampeggianti a indicare la via corretta, una narrazione con voce fuori campo che spiega le meccaniche a mo’ di tutorial giocabile). La regia è dinamica e labirintica, la camera si sposta continuamente giocando con le inquadrature, lo schermo si divide e si triplica senza sosta, la comparazione di più schermate mette in gioco un movimento che strizza gli occhi e obbliga a una concentrazione sofisticata nel seguire contemporaneamente più situazioni differenti. Ma alla fine purtroppo non c’è molto altro.
Questa storia di ordini e potere, hacker e attrici famose, si svela troppo presto nel suo mero pretesto per sostenere l’impalcatura visiva, e ciò non sarebbe per forza un male se ci fosse almeno una carica, una spinta che di volta in volta alimentasse il film supportando le infinite trovate visive con una narrazione altrettanto pimpante, e invece, dopo un bizzarro prologo e qualche bel colpo di assestamento, tutto si adagia su una piattezza tirata per troppi, troppi minuti: le sorprese non funzionano, i colpi di scena sono stanchi o così esagerati da richiedere una sospensione all’incredulità che non si meritano, e la scelta, voluta o incidentale, di Sasha Grey è cosa abbastanza tiepida dato che, pur con un personaggio ben scritto, non è mai in parte per garantire un qualche tipo di distacco tra finzione e realtà, l’effetto è quindi quello del ridicolo e rovina molta atmosfera. Rimane quindi l’inconfondibile voce di mr “Where is Jessica Hyde” e quello sguardo ingenuo di un Elijah Wood sempre controllato e timidamente perfetto, giusto specchio vouyeristico di molta generazione del 2.0.
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