La protagonista e voce narrante di Opendoor non ha un nome che la identifichi, né aggettivi che la descrivano. Sappiamo di lei che lavora in una clinica veterinaria gestita da una donna che la tratta senza convenevoli. Ha una compagna, Aída, fotografa freelance: si sono conosciute in un bar e poco dopo sono andate a vivere insieme. Lo sfondo è una Buenos Aires sopraffatta dalla calura estiva.
Una mattina la protagonista-narratrice si reca a visitare un cavallo in un villaggio poco distante chiamato Opendoor; il villaggio prende il nome da una colonia psichiatrica fondata lì alla fine del XIX secolo da un medico “illuminato”, il quale basava la cura della malattia mentale sullo stabilire per il paziente una routine fatta di lavoro quotidiano e libertà di andare e venire.
Il cavallo da visitare ha un melanoma, come dire i giorni contati, e si chiama Jaime, come il suo padrone, il tipico uomo di campagna rude, semplice ma saggio, gran lavoratore. La ragazza resta profondamente e inconsciamente ammaliata da un ambiente per il quale, razionalmente, proverebbe repulsione: così arretrato, immediato e viscerale, quieto da indurre alla follia.
È questa la prima alterazione del normale andamento della vita della protagonista; la vera svolta arriva però una sera, nel giro di poche ore: Aída scompare e poco dopo, davanti ad una folla di curiosi e nonostante gli inutili tentativi di salvataggio, qualcuno si suicida gettandosi da un ponte. Può essere Aída? Non si sa con certezza neppure se sia un uomo o una donna, e rintracciare la fotografa è davvero un rompicapo: è così difficile, in Argentina, ritrovare una persona scomparsa, dirà Jaime (e la storia della dittatura lo ha ampiamente confermato).
La nostra protagonista non si sente più a suo agio in casa di Aída, senza di lei; dorme in clinica per un po’ ma lavora male, e viene licenziata. Torna a Opendoor, ci resta; diventa la compagna di Jaime ma trascorre molto del suo tempo con Eloisa, ragazzina attraente e ossessionata dal sesso. Intanto, diventa regolare frequentatrice dell’obitorio, dove si reca per riconoscere cadaveri che puntualmente non hanno nulla a che fare con Aída. Situazioni estreme e vite precarie, che si traducono in esiti surreali.
Oscar Guardiola-Rivera, fra le altre cose critico letterario, ha parlato di “capolavoro” e di una finalmente sopraggiunta terza rivoluzione nella letteratura ispanica, perché Havilio raccoglie la sfida di Borges: non si affanna a nominare e descrivere e presenta gli effetti tralasciandone le cause. Più di una volta, difatti, nel corso della lettura, risulta difficile trovare un senso immediato nelle azioni dei protagonisti: sembra che le loro vite procedano per inerzia, e per tentativi. Nulla è perfettamente identificato: non le persone, non le loro scelte di vita, neppure i loro orientamenti sessuali. La storia cattura proprio perché è impossibile prevederne gli esiti, è sin dall’inizio chiaro che il racconto non risponderà ad una logica predefinita. Un po’ come la vita: ed è così che un romanzo surreale diventa una forma estrema di realismo.
Marina Lomunno
Iosi Havilio, Opendoor, Caravan Edizioni, pp. 244, euro 14.