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“Operette morali”: quando Martone ci fece amare Leopardi…

Creato il 29 aprile 2014 da Onesto_e_spietato @OnestoeSpietato

operette_moraliChiuso il sipario sulle Operette Morali di Mario Martone, si è facilmente portati a pensare come il regista napoletano sia il massimo che registicamente si possa vedere oggi nel teatro italiano. E forse è davvero così. Un teatro d’autore dove la componente registica domina e forgia tutto il resto, che ci confonde e incanta con una personalità capace di essere monumentale con pochi oggetti in scena, dotata di un minimale gigantismo. Una vela costellata di schematici disegni, una panca “girevole” che traghetta da un dialogo all’altro, una tufosa scultura totemica che avanza silenziosa. Pochi elementi che sanno riempire la scena. E poco conta, come anche nel caso de La serata a Colono, se non riusciamo a cogliere tutta la profondità del testo. L’abbaglio visivo ed estetico è sufficiente a colmare il desiderio di meraviglia di chi guarda.

Con Operette morali Martone riesce a trasformare in teatro ciò che più intrinsecamente è legato alla letteratura e alla letterarietà: la fulgida ma non ridondante visionarietà e visività di Giacomo Leopardi. Se al liceo lo abbiamo odiato, Martone veste i panni di professore illuminato che sa farci amare e riscoprire il più usurato poeta italiano dell’Ottocento. E il piacere di vederlo suscita in noi la voglia di rileggerlo. Con altri occhi, con nuove immagini in testa.

Con un incedere mai compiacente o compiaciuto, va fieramente in scena tutta la componente evocativa della filosofia leopardiana. Anche grazie alla formidabile bravura del cast, dominato da un tuonante Paolo Graziosi e un coriaceo Renato Carpentieri.

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