Ora so tutto

Creato il 24 novembre 2013 da Signoradeifiltriblog @signoradeifiltr

2°CLASSIFICATO AL CONCORSO "GIALLO MIELE" 2010

“Mi sveglio con questo terribile dolore alla testa. Soffro troppo ogni volta, se solo potessi fermarle, sento il loro ronzio da lontano, insistente, assordante, che si avvicina. Ora arriveranno di nuovo. Ecco la prima, poi un’altra, un’altra e un’altra ancora. Migliaia di api volteggiano su di me, mi girano attorno seguendo un antico copione, si uniscono in un solo grande scuro ammasso di ali frementi e riesco quasi a sentire il vento che spostano . Si compattano, si muovono, si dispongono a schiera e l’unico corpo che vanno a formare cambia colore: nero, giallo, ancora nero, ancora giallo. La testa mi scoppia, so che non potrò sopportarlo a lungo. Dolcemente il ronzio si ferma, il dolore si placa e un immenso piacere mi pervade quando la vedo: eccola è lei. Una donna stupenda con le ali trasparenti e gli occhi sporgenti. La vita stretta e il seno gonfio, la gonna gialla e nera ondeggia quando cammina e si muove verso di me. Io l’amo, la seguo. Usciamo insieme, le tengo la mano morbida, cosparsa di una invisibile peluria nera che la rende un velluto. “Mia Regina!” la chiamo. Vorrei baciarla, ma non si concede subito, prima abbiamo da fare.”

Francesco Modena era un uomo sulla settantina, una vita passata ad accumulare denaro, a contarlo la sera fino a tardi. Il lume sulla scrivania e la lampadina a basso consumo. Il suo libricino nero dormiva con lui. Ogni mattina lo apriva e controllava chi doveva andare a trovare. Bussava, entrava con molta educazione, chiedendo permesso. Si muoveva piano tenendo la testa bassa e le mani giunte dinanzi al petto, sfregandole l’un l’altra, mentre parlava e chiedeva di saldare il debito al suo interlocutore. Non sapeva perché appena lo vedevano le persone perdessero il sorriso, gli rispondevano sgarbatamente pur dovendogli grosse somme che aumentavano di giorno in giorno. Non capiva, non ci era mai riuscito, perché invece di gratitudine gli mostrassero fastidio, schifo a volte. Lui non faceva altro che assecondare le loro richieste, essere il più accomodante possibile. Venivano da lui con casi disperati di debiti da pagare entro pochi giorni per non dover cedere la casa alle banche, concedeva prestiti generosi e senza garanzie precise. Si faceva firmare alcune cambiali in bianco, tanto per un formale riconoscimento del suo credito, e non dava scadenze per il saldo. Semplicemente passava ogni settimana a riscuotere un piccolo interesse che gli consentiva di vivere, di tirare avanti, in attesa che loro risparmiassero a sufficienza per restituirgli il capitale. Quando lo vedevano, invece di essere contenti, di ringraziarlo per averli aiutati nel momento del bisogno, gli mostravano disprezzo, gli buttavano sul tavolo la cifra pattuita, gli dicevano parolacce e maledetto strozzino era una delle meno offensive.

Quella sera era particolarmente stanco, la giornata era stata lunga. Le persone da visitare aumentavano ogni giorno e lui si stava facendo vecchio, aveva solo un caro e fidato amico ad aiutarlo, a cui un giorno avrebbe lasciato i suoi averi. La moglie era ridotta quasi a un vegetale, sulla sedia a rotelle, non parlava, un filo di saliva le scendeva lungo il mento e si limitava a fissarlo con disapprovazione ogni volta che l’andava a trovare alla casa di riposo. Anche lei senza un briciolo di gratitudine per i soldi che doveva spendere a farla curare. E sua figlia, la sua unica figlia era la sua più grande vergogna. Si alzò dal suo tavolino, chiuse il cassetto dove teneva le cambiali, mise la chiave nel borsellino di velluto, che gli pendeva dalla cintura dei pantaloni, e se lo infilò in tasca. Fu allora che sentì sbattere la porta, forse era stata una corrente d’aria con la finestra che aveva spalancato poco prima. Si disse che era strano, troppo caldo, troppa afa per far muovere i battenti di legno del suo pesante portone. Andò verso l’ingresso e nella penombra del corridoio vide muoversi una figura furtiva. Si era nascosta dietro una tenda e la luce che proveniva dai lampioni della strada, riflettendo all’interno, creava strane ombre. Gli era parso addirittura che quella sagoma avesse le ali. Pensando che il gioco di luci potesse aver ingigantito le forme di una falena, scostò velocemente la tenda e l’ultima cosa che vide fu la mannaia che gli spaccava la fronte.

“Oggi sei di nuovo qui, il dolore che precede la tua comparsa è stato più forte del solito, mi hai trovato raggomitolato sul pavimento, bagnato di urina. Non sono riuscito a trattenerla mentre mi tenevo la testa nell’intento di fermare quella terribile pressione che avverto quando arrivi. Dove mi conduci ora? Tu sola lo sai e io per te farò ogni cosa, io per te solleverò ancora una volta la pesante scure, e per sentire il tepore del tuo corpo ancora una volta ucciderò, mia Regina!”

Carla Modena era bella, i capelli tinti di un vivo rosso tiziano per coprire qualche filo bianco spuntato all’improvviso, gli occhi verdi e grandi, screziati da sottili venature azzurrognole. Guardandosi nello specchio vedeva riflessa l’immagine di una donna non più giovane, piacente, ben fatta, ma ormai matura. La gambe nervose e scattanti dei suoi vent’anni si stavano tornendo, riempiendo e quando si metteva dritta sulle punte, come aveva imparato a fare fin da piccola, ai lati comparivano delle antipatiche fossette, la pelle si faceva a buccia d’arancia e sui fianchi si erano gonfiati dei piccoli cuscinetti di grasso che non riusciva a smaltire. Le sue gambe un tempo avevano fatto girare la testa a molti uomini. Uomini che le avevano promesso una brillante carriera nel cinema, che le avevano sfiorato ogni sua più intima parte e, mentre si immaginava a calcare le scene, si era lasciata toccare, deflorare, possedere. Le promesse non venivano mantenute e col tempo ogni provino che faceva, ogni colloquio a cui andava finiva sempre nello stesso modo. Lo sapeva, ma aveva continuato a illudersi e non si era mai arresa, non riuscendo ad ammettere, nemmeno con se stessa, di aver abbandonato l’unico uomo che avesse amato davvero per fare carriera e poi essere caduta così in basso. Dopo aver lasciato la sua città, per inseguire un sogno, aveva vissuto per anni di piccole parti in film pornografici, dove veniva aperta, ispezionata, posseduta durante le riprese e dopo, ancora, dal regista che l’accompagnava, promettendole ruoli più importanti per il film successivo o, come se non bastasse, dal produttore che la invitava a casa dove diceva di aver organizzato una festa in suo onore, scoprendo poi che la sua villa altro non era che una squallida garçonnière. C’erano stati giorni in cui si era sentita sporca, non credeva più alle vane promesse degli uomini, ma ormai era come impigliata nella ruota di un ingranaggio e continuava a girare. Così di anno in anno, di illusione in illusione si era vista sfuggire tra le dita la sua gioventù senza aver raggiunto la fama sperata. Qualche mese prima aveva fatto ritorno a casa. Suo padre era morto, ucciso in modo violento, e lei aveva colto al volo l’occasione per raccontare a tutti che si era ritirata, stanca delle luci della ribalta, rifiutando parti di rilievo in film importanti, per stare vicino alla sua vecchia madre. In realtà la madre da tempo, affetta da Alzheimer e rinchiusa in una casa di cura, non la riconosceva nemmeno e suo padre in dissidio con lei da tutta la vita aveva intestato ogni proprietà e ogni avere ad un socio in affari, lasciandola senza un soldo. Così per mantenersi la sera prendeva l’automobile, andava all’altro capo della città ove nessuno l’aveva mai vista e si metteva in vendita. Passeggiando sul marciapiede con vertiginose minigonne e tacchi a spillo, conservava l’andatura elegante da diva del cinema, e gli uomini impazzivano ancora per lei. Due, tre, quattro clienti ogni sera. Aveva raggiunto il successo, era ricercata e ben pagata come una vera star. Poche sere prima, mentre si accendeva una sigaretta a un angolo di strada, illuminata da un lampione si vide avvicinare da lui, dall’uomo che aveva amato, ferito e mai dimenticato. Riconoscendola, l’aveva guardata dapprima sorpreso, poi con disprezzo le aveva offerto dei soldi, tanti soldi. Non era riuscita a sopportare che lui la vedesse così e lo aveva rifiutato, cacciato in malo modo, insultato e persino deriso. Lui se ne era andato piangendo, esattamente come tanti anni prima quando lo aveva lasciato solo e sconsolato sul marciapiede della stazione. E lei da quel giorno, e ogni giorno un po’ di più, si concedeva qualche goccio di rum per dimenticare l’amarezza della sua vita: l’unico uomo che avesse amato era il solo a non averla mai avuta.

Era sera, si stava preparando per uscire e riviveva come al solito la vergogna di quell'amaro ricordo, diventato un incubo ricorrente nei suoi pensieri. Aveva indossato le calze a rete e la guepière che la stringeva un po’ in vita facendola sembrare ancora sottile come un tempo. Inutile infilare le mutandine, sapeva bene come si eccitavano gli uomini quando, sollevando la gonna, intravedevano direttamente i riccioli neri del pube. Le piaceva curare i particolari, le scarpe in tinta con la camicia, e il trucco vistoso ma mai pesante. Prima di uscire si diresse in cucina per dare un ultimo sorso di rum, attaccandosi direttamente alla bottiglia. Faceva caldo, la porta finestra che dava sul giardino era aperta, si affacciò un attimo appoggiandosi allo stipite, cercando di rimandare ancora per un po’, almeno col pensiero, il momento in cui un’altra mano estranea avrebbe violato le sue carni. Sporse leggermente la testa fuori, sforzandosi di mettere a fuoco qualcosa che le pareva si muovesse tra gli alberi, mentre gli occhi si abituavano al buio, le sembrò di intravedere una strana figura venirle incontro. Era un’ape, enorme con le ali e le antenne. Stupita, incredula non ebbe il tempo di urlare, di fuggire che una pesante mannaia le si abbatté sulla testa, spegnendole sulle labbra, lucide di rossetto, un ultimo grido di orrore.

“Quando arrivi e mi porti con te io vivo i momenti più belli di tutta la mia vita. Ogni volta che ti sfioro brividi intensi mi percorrono la schiena, il sangue scorre veloce nelle vene e mi pizzica sulle spalle, sul collo, fin dietro le orecchie provocandomi calore, un’infinita eccitazione e poi esplodo in un piacere che mi dilania. Quando lasciamo a terra, colpite a morte, le persone che hai deciso di uccidere, mi sussurri parole dolcissime che sento risuonare come un’eco mentre ti allontani e, resto di nuovo solo, scosso dai sussulti di un orgasmo lungo e sfiancante. Il tempo che ti trattieni con me è sempre di meno, troppo breve. Troppo lancinanti invece i dolori che mi squarciano le tempie mentre ti aspetto. Recentemente mi succede qualcosa di strano, quando esco la notte con te, il mattino dopo sono pervaso da una spiacevole sensazione di disagio. È come se avessi fatto un sogno, un bruttissimo sogno, ma non riuscissi a ricordarlo. Oggi mi sono svegliato all’improvviso, mentre ancora ti stavo parlando mia Regina, ero a terra con addosso un ridicolo costume da ape, intriso di sperma e di sangue.”

Giorgio Cavina era un uomo robusto di aspetto giovanile, ma ormai sulla quarantina. Era rimasto orfano di padre in tenera età e terminata la scuola dell’obbligo, si era dedicato completamente all’apicoltura aiutando la madre a portare avanti l’azienda di famiglia. Aveva vissuto sempre all’ombra di questa donna energica e dispotica ed era cresciuto timido, accondiscendente, senza volontà e senza formarsi mai un carattere ben definito. L’unica volta che si era mostrato forte al punto da contrastare la volontà della madre era stato quando, ancora giovane, si era innamorato di una ragazza che lei riteneva poco seria, troppo libertina e non adatta a lui. Era stato irremovibile e l’avrebbe sposata, se la ragazza stessa non lo avesse lasciato per fuggire con un altro uomo. Incurante della sua delusione, la madre non aveva perso occasione per ribadire che lei aveva avuto ragione e che doveva prendersela solo con se stesso per non aver ascoltato i consigli della sola donna che gli volesse veramente bene. Allora Giorgio si era completamente sottomesso, non aveva più cercato di trovare una ragazza con cui dividere la sua vita e si era chiuso in se stesso, dedicandosi solo alle api, l’unico grande amore che sentiva ricambiato. Quando anche la madre se ne era andata per sempre era rimasto completamente solo con i suoi alveari. Costruiva da sé le arnie, in maniera pignola e perfetta, con la tettoia a doppio spiovente per preservare le abitanti dagli agenti atmosferici, il soffitto mobile, la camera di covata con dodici telaini per la deposizione del miele e il fondo mobile per l’approdo. Osservando attentamente il comportamento delle api aveva imparato che ogni colonia, di tipo matriarcale, era retta da una rigida gerarchia, al vertice della quale si trovava l’ape regina e che l’organizzazione dell’alveare dipendeva dall’incessante lavoro delle api operaie. All’inizio dell’estate e dell’autunno procedeva alla smelatura, il processo attraverso il quale si toglieva il miele dai telai e quel lavoro lo appassionava al punto da costituire tutta la sua vita. Era conosciuto e stimato come un bravo e onesto lavoratore, vendeva il suo miele al mercato, la cera alle industrie di cosmetici, ma non riusciva a guadagnare abbastanza per mantenere la proprietà della sua casa libera da ipoteche e debiti. Lui non se ne creava grosse preoccupazioni, tirava avanti alla meno peggio affascinato e preso soltanto dalla vita dei suoi alveari.

Col passare degli anni aveva sviluppato un’atipica allergia alla puntura d’ape e le ferite si presentavano sempre più infette e gonfie, tardavano a guarire e si vedeva costretto a ricorrere alle cure del medico. Recentemente era così forte la reazione al veleno, quando gli entrava in circolo, che sentiva un fortissimo, acuto dolore alla testa e gli capitava di svenire. Restava a lungo privo di sensi e quando si risvegliava non ricordava nulla di ciò che gli era successo. Fortunatamente gli accadeva di rado che un’ape lo pungesse e il più delle volte, dopo aver perso coscienza, si era risvegliato nel suo letto con un po’ di febbre, così prendeva gli antistaminici e tutto tornava a posto.

Quella mattina però si era ritrovato sul pavimento con addosso il costume da ape che la madre gli aveva cucito in occasione di una grandiosa festa di carnevale organizzata quando lui aveva circa diciotto anni. Glielo aveva fatto indossare contro la sua volontà e si era sentito ridicolo, per fortuna il viso era completamente coperto da una maschera che riproduceva il muso appuntito di un’ape e nessuno aveva potuto vederlo rosso di vergogna. Quello stupido costume era stato riposto nel fondo di un baule e non riusciva a spiegarsi come fosse successo che se l’era trovato addosso. Ricordava di essere stato punto nel pomeriggio mentre aggiustava un’arnia, di essersi sentito male, e di aver provato il solito forte dolore alla testa e poi più nulla. Ora guardava quel costume, se lo rigirava fra le mani cercando di cavarne un ricordo, un barlume che gli facesse tornare la memoria. Era sporco di sangue. Allora, si era a lungo ispezionato cercando una ferita sul suo corpo, ma era giunto alla conclusione che il sangue non poteva essere suo. Si sedette, accarezzò il velluto nero dei lunghi guanti che facevano parte del costume e un violento brivido di piacere gli percorse tutta la schiena. Un lampo squarciò il buio dei suoi ricordi e vide una figura femminile che aveva addosso il suo costume e se stesso che mentre l’accarezzava, provava un infinito languore. Poi di nuovo il nulla. Continuava a non capire e frugando, vagando nella nebbia della sua mente sconvolta, cominciò a rivedere altre scene che non sapeva se appartenere al sogno o alla realtà: un uomo che cadeva colpito da una pesante mannaia. Era Francesco lo strozzino che da tempo gli prosciugava ogni guadagno, poi lei, la sua Carla che moriva allo stesso modo. Era l’ape che reggeva l’arma e che colpiva con violenza le vittime e lui era uno spettatore. Poi all’improvviso l’immagine che rivedeva passare davanti ai suoi occhi cambiava di prospettiva e allora era lui stesso a compiere quelle orribili azioni. Si sentiva sconvolto, ma piano piano i ricordi riaffioravano sempre più nitidi e così riuscì a ricostruire tutto quello che era successo. Incredulo dovette ammettere di essere lui l’autore degli omicidi.

“Sono io dunque che ho commesso quegli orribile scempi e il sangue che ho addosso è quello di Carla.” Una lacrima scese a bagnargli la guancia. Ora rivedeva ogni cosa, ogni minimo particolare, improvvisamente si era palesato anche il più nascosto ricordo. Erano passati diversi anni da quando, per la prima volta, aveva avuto quella smisurata reazione al veleno. Era andato da sua madre e le aveva spaccato la testa. La trovarono riversa nel prato davanti casa e lui, a letto febbricitante, non era stato nemmeno sospettato.

Giorgio ora piangeva costernato, con le mani a coprirsi il volto e gridava la sua disperazione: “Ora lo so, ora so tutto! “ Come fosse potuta succedere una cosa così terribile sarebbe rimasto per lui un mistero, ma si fece coraggio, si alzò dalla sedia, andò a lavarsi e a cambiarsi. Non sarebbe stato facile affrontare il giudizio della gente, ma non gli restava altro da fare. “Vado a costituirmi, racconterò ogni cosa, dovranno tener conto del mio pentimento e saranno clementi!”. Pagare il suo debito con la giustizia era l’unica cosa che avrebbe potuto alleviargli un po’ il peso che gli gravava sulla coscienza. Era un uomo onesto e soprattutto non era un assassino.

Uscì, si incamminò verso le sue arnie, non c’era nessuna fretta, dopotutto non lo stavano aspettando. Salutare una per una le casette costruite con tanta cura, gli faceva male al cuore, chi si sarebbe preso cura di loro dopo che lo avrebbero rinchiuso in un carcere? Parlava con le api, come con delle sorelle, delle figlie, delle amanti. Pensò a quanto aveva appreso negli anni dalla loro perfetta organizzazione per condurre la sua vita di tutti i giorni: operosità e rispetto per l’ape regina, osservanza delle regole e delle mansioni affidate. Aveva lavorato sodo per tutta la vita, aveva ubbidito ciecamente al volere di sua madre e nonostante fosse buono e sincero una donna gli aveva spezzato il cuore, lo aveva prima illuso, poi abbandonato, rifiutato e, anche se ormai era la donna di tutti, solo a lui continuava a dire di no. Lo strozzino gli teneva il fiato sul collo , appena lo vedeva tornare dal mercato con due soldi in tasca, andava da lui e pretendeva interessi di un debito che, in quel modo, non avrebbe mai potuto saldare. La vita era stata ingiusta e crudele, pensava. Un’ape gli ronzò vicino all’orecchio e quel dolce suono a lui così caro e familiare gli scatenò una carica di adrenalina. Lui era stato intelligente, nessuno aveva scoperto ciò che aveva fatto e da quanto dicevano i giornali, in merito all’omicidio del vecchio, erano ancora molto lontani anche solo dall’immaginare il suo coinvolgimento. Indossando i guanti di velluto, non aveva lasciato impronte e la maschera gli aveva coperto il volto. Conosceva le vittime, la loro casa e non aveva avuto problemi a entrare senza farsi scorgere, a colpirli prima che avessero il tempo di reagire e nessuno aveva visto o sentito nulla. “Dunque non é stato poi così difficile pareggiare i conti con la vita!”

Una voce che non conosceva continuava dentro di lui, sussurrando insistente, a cercare di convincerlo a non andarsene e a non lasciare le sue api “ Vuoi finire i tuoi giorni in galera a causa di quella gente? Non meritano affatto il tuo sacrificio, credi a me!” Premeva sulle orecchie per non sentirla, ma quella voce si faceva sempre più forte, più suadente, più convincente. Ebbe un moto di orgoglio, alzò la testa:”Sono stato bravo e nessuno mi darà più fastidio.”

Anzi c’era ancora una persona con cui aveva un conto da regolare: il suo vicino. Non era mai riuscito a coglierlo sul fatto, ma sapeva che gli veniva a rubare il miele, anche gli attrezzi a volte e poi lo irrideva quando lo salutava da lontano.

Questo non sarebbe più successo, non era più il ragazzo timido e impaurito di cui ci si poteva approfittare. Finalmente aveva preso coscienza di essere un uomo forte, coraggioso, intelligente e nessuno avrebbe ancora abusato della sua bontà.

Si avvicinò a un’arnia, sapeva bene come provocare la reazione delle api, infilò un braccio all’interno e non dovette attendere più di qualche secondo prima di venire punto due volte.


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