Agglomerati di pietre su cime rocciose di alture impervie, con minuscole finestrelle sbarrate come gli occhi stanchi dei tanti vecchi che stazionano su piazze assolate, testimoni di un tempo surreale che si stenta a credere esserci stato.
Teora, Calitri, Conza, Sant’Angelo dei Lombardi, Lioni, sono solo alcuni dei paesi dell’Irpinia Orientale, terra sconquassata da furie sismiche, quasi il destino, in maniera sia pure crudele, volesse smuovere una realtà troppo intrisa di rassegnazione e ripiegamento su se stessa. Zona abbandonata da molti in cerca di un’esistenza più decorosa della semplice sussistenza, scandita dai ritmi dei cicli stagionali, della natura, selvaggia e poco generosa che li avvolgeva.
Sono venuto qui a pregare oggi che il vento è così forte e sparpaglia pure le ossa dei morti nelle bara
Questi alcuni emblematici versi di Franco Arminio, che il 6 e 7 dicembre al Teatro Officina di Milano ha voluto evocare le atmosfere da lui assaporate nei luoghi sopracitati, soprattutto nel paese natìo di Bisaccia, con lo spettacolo “Oratorio Bizantino”, impreziosito dai canti di Caterina Pontrandolfo e dalle musiche della fisarmonica di Admir Shurtaj.
Si tratta di un impegno politico, una scuola di “paesologia” per sottrarre il Mezzogiorno e non solo, a questo cattivo tempo della dimenticanza. Si è parlato di turismo della clemenza, come se si facesse del bene a visitare questi posti, desolati e poco ospitali. In verità in essi si celano valori, tradizioni ispirate a riti ancestrali, suggestioni oniriche che restituiscono il sapore intenso di dimensioni esistenziali primigenie.
Le note dolcissime di “Gracias a la vita” hanno suggellato la performance, quasi fossero una delicata carezza sul cuore ferito di quanti hanno lasciato quei luoghi ed ora li ricercano, anche semplicemente con le immagini, i canti, le belle parole di un poeta ramingo.
Occorre dire altresì grazie a Massimo de Vita, che da quarant’anni, presso il Teatro Officina da lui diretto, riesce a confrontarsi con realtà sociali differenti, riuscendo a costruire rapporti di ascolto e di accoglienza. In tal modo, a suo dire, la nostra storia si mescola con quella dell’umanità incontrata, divenendo crocevia di sguardi, voci, suoni, odori, fino a dissolvere magicamente ogni separazione identitaria.