“Semiologo dilettante, spettatore ostinato, saggista crossmediale, teorico poststrutturalista”, è @El_Pinta o, se siamo in preda a istinti voyeuristici pre-cloud-computing, Flavio Pintarelli. È redattore de Il Lavoro Culturale, blogger, e social media manager della rivista Fútbologia (su cui scrivono anche i WuMing). Oggi, su Scrittore Computazionale, @El_Pinta condivide con noi alcune delle idee che gli sono venute in mente giocando con blog, Twitter e aggeggi simili.
Vivere la Rete Nella Sua Dimensione Poietica
Oggi sono ospite di Scrittore Computazionale il blog di @artnite, che un paio di settimane fa mi ha chiesto di scrivere qualche riga a proposito di come cambia l’autorialità in rete.
Vorrei cominciare il ragionamento raccontando come sono finito qui sopra.
@artnite l’ho incrociato per la prima volta due o tre anni fa su Twitter. All’epoca stava promuovendo il suo primo romanzo, Zagreb, ed era un utente molto attivo, coinvolto in diversi discorsi relativi all’editoria digitale. Siccome mi occupo di argomenti affini per lavoro e per passione ho cominciato a seguirlo e piano piano a interagire con lui, scambiando battute su Twitter e dialogando nei commentari del suo e di altri blog.
@artnite e io non ci siamo mai visti di persona e se non fosse per i frammenti di informazioni che condividiamo entrambi sui social non saprei che Arturo di mestiere fa il chimico e vive a Berlino. E lui non saprebbe che io di nome mi chiamo Flavio e faccio il copywritersocialmediamanager a Bolzano.
A prescindere da queste informazioni, il nostro rapporto – che qui trova la forma di un guest post – si è basato sempre su una dimensione poietica. Siamo blogger, curator, semplici appassionati con tanta voglia di prendere parola, partecipare, metterci alla prova.
La dimensione orizzontale del web ce lo permette, il nostro rapporto si basa sul reciproco riconoscimento del valore di quello che facciamo e non di chi o cosa siamo. Se la parola non fosse ormai logora potremmo chiamare questa cosa meritocrazia.
Orizzontale, verticale e obliquo: tutte le dimensioni della rete
Come ho detto poco sopra, esiste una dimensione orizzontale della rete. Non è l’unica anche se in molti lo pensano. La rete possiede anche una dimensione verticale e forse anche una dimensione obliqua.
Visualizzare i protocolli informatici che costituiscono internet come una rete significa che noi utenti ne siamo i nodi. Attraverso ognuno di noi passa un certo numero di informazioni sotto forma di dati. Tuttavia all’interno di questa visione reticolare esistono nodi più grandi degli altri, se questi nodi corrispondono a un utente singolo solitamente questo utente lo si definisce influencer. Ovverosia colui che ha la capacità di orientare le opinioni degli altri nodi grazie alle informazioni che processa e veicola. Proprio in questi giorni un influecer e il suo spin doctor hanno portato in Parlamento una nutrita pattuglia di nodi più piccoli.
La capcità di influenza esercitata da questi soggetti sfonda il piano orizzontale della rete e lo apre alla verticalità. Cosa determina questo sfondamento? Senza dubbio una presa di distanza da parte dell’influencer rispetto agli altri attori della rete. Solo se l’influecer è disposto a muoversi obliquamente è possibile avere con lui un rapporto che non sia basato solo sull’identità.
Quanto vale l’influence?
Molto, anzi moltissimo. Non solo per le aziende che utilizzano questi opinion leader per promuovere prodotti e iniziative, ma anche per i gatekeeper (alla lettera “guardiano del cancello”, si riferisce ai soggetti che detengono posizioni dominanti in un determinato settore e sono in grado di influenzarne le evoluzioni) che controllano l’infrastruttura della rete. Il più importante di essi, Google, ha annunciato pochi mesi fa l’introduzione del rank autore come fattore di indicizzazione dei propri contenuti.
Significa che inserendo una piccola stringa di codice ai propri post si creerà un collegamento tra il proprio profilo su Google Plus e il contenuto stesso. In base alla lettura dei grafi sociali, Google attribuirà a quel contenuto un valore maggiore o minore rispetto ad altri e quindi lo premierà o lo penalizzerà nei suoi risultati di ricerca.
All’apparenza tutto bellissimo. Più io genero attività sul mio profilo social, più i miei contenuti verranno tenuti in considerazione dal motore di ricerca e io autorevole all’interno di una nicchia.
C’è un ma…
Il rank autore si può implementare solo a costo di usare un’immagine profilo che rappresenti la propria vera faccia e avere un indirizzo email legato al dominio in cui si pubblicano i contenuti.
Queste limitazioni costituiscono le cosiddette real name policy ovvero le regole per la denominazione reale che molte aziende web stanno adottando in questi anni.
In rete col proprio nome: cosa comporta?
Molti osservatori e studiosi del digitale vedono nello sforzo teso all’introduzione di real name policy più stringenti un elemento potenzialmente rivoluzionario, in grado di modificare la fisionomia della rete, così come la conosciamo.
Se tutti i nostri contenuti sono associati con la nostra identità reale saremo ancora in grado di costruire rapporti basati sulla dimensione poietica della nostra presenza virtuale? La risposta è si, ma questo sarà sempre più difficile perché l’attenzione si sposterà inevitabilmente dalle cose che facciamo a chi siamo.
Il rischio è di riproporre in rete modelli di autrevolezza fortemente gerarchici e castranti. Si badi bene, notare questo non significa fare apologia alla deresponsabilizzazione o all’anarchia-da-burletta che certi critici apocalittici della rete agitano come uno spauracchio.
Riflettere su questi argomenti significa chiedersi se è possibile costruire un nuovo tipo di autorialità che abbia nei testi e non negli autori il suo fondamento.
La domanda che dovremmo farci, come scrittori e abitanti della rete, è la seguente: quali sono gli strumenti e le competenze che dobbiamo padroneggiare per essere soggetti attivi di questo cambiamento? Siamo davvero disposti a farci carico della responsabilità?
La sfida per una nuova scrittura passa anche da qui.
Chimici della University of California hanno creato dei cristalli simili a DNA, un “gene” sintetico, che sono in grado di catturare le emissioni nocive di CO2. L’immagine è una rappresentazioni di queste strutture.