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Os Residentes (The Residents)

Creato il 01 ottobre 2014 da Frankviso
Os Residentes (The Residents)Tiago Mata Machado
Brasile, 2010
133 minuti

Se ne accennò qui, circa un anno fa. Ora, a visione finalmente compiuta, risulta quantomai difficile giungere alla conclusione se l'ultima pellicola (girata in 35mm) dell'ex critico e video-artista Tiago Mata Machado, presentata alla 61a Berlinale nella sezione forum, sia un capolavoro o se perlomeno, possa aspirare a tale olimpo. Senza dubbio, ci troviamo al cospetto di un'opera quanto necessaria, quanto atipica per questi tempi d'imperante passività verso un sistema uniformante, visto che Os Residentes, altro non è che un riecheggiare di quelle tendenze ideologiche, ed estetiche, che si animavano ferventi a cavallo delle due decadi più sovversive del secolo scorso. Se è vero però che ogni avanguardia parte da un superamento, è altresì certo che dai sessanta (o giù di lì) nessuna cosiddetta "nuova avanguardia" è stata più in grado di affermarsi realmente come tale se non annientando ogni volta se stessa. Allora, ad oggi, è forse più indicato parlare di inno alla resistenza, nel film di Machado. Quella resistenza che gli orfani (i residenti del titolo) delle avanguardie di un'epoca che ha voluto dare forma "al nuovo", barricati in totale autonomia nell'area di un edificio prossimo a demolizione, cercano di portare avanti preservando quella territorialità (ed etica) attraverso una serie di azioni/simulazioni di gesta, posture, finti addestramenti bellici (addirittura gli stessi costumi, art déco esposta a cadenza regolare per la suddivisione del film in capitoli) che ritrovano nel Godard di La Chinoise (1967) il riferente di maggior spessore ma che di concreto, non sovvertiscono nulla. Gli alberi infatti, non fruttificano più come un tempo ma generano sacchi di rifiuti, e l'inquietante proliferarsi dell'immondizia (magistrale il lavoro fotografico di Aloysio Raulino) dall'interno domestico al centro urbano, fino ad invadere autostrade e tangenziali, è quantomai metaforico della triste condizione di globalismo politico/culturale che stiamo vivendo. L'atto rivoluzionario, finisce così per ridursi a una messa in scena teatrale, tanto innocua quanto ridondante (emblematica la sequenza della bicicletta che continuando a girare in circolo, scivola sulla macchia d'olio), fino ad assumere i toni di una farsa nella quale le scope sparano come armi, fiumi di vernice rossa. Machado, ripristina un teatro dell'assurdo dove la potenza delle immagini finisce per trascendere l'ideologia; il pensiero viene annullato, le teste/i volti, occultati dietro oggetti di varia natura e forme (estudo de cabeça), la poesia muore nelle bocche dei loro cantori, artisti-guerriglieri la cui rivoluzione è puramente éstética. E' il trionfo dell'estetica, e il muro del reale crolla con la stessa facilità di un castello di carte, aprendo un varco a reminiscenze paniche (il Jodorowsky migliore, quello di Fando y Lis e La Montagna Sacra, per intenderci) ma anche al surrealismo più politico di Dusan Makavejev. In fin dei conti, tutto si esaurisce in una resa incondizionata (o più ragionevolmente, nell'attuale remissività) di fronte a una guerra "invisibile", tanto più che la demolizione avverrà, come prefissato, fino all'ultimo mattone, e qualsiasi moto insurrezionale spazzato via da una polvere di macerie e rifiuti. Resta l'ancoraggio alla propria dottrina, coltivata nella terra dell'urbano e pronta a risorgere distante, in zone ben più estese e probabilmente, anche più propizie a riformularsi come future oasi contemplative, ove sondare al meglio, "i misteri dell'organismo".
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