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Oscar Wilde – Il critico come artista 1

Creato il 13 dicembre 2012 da Marvigar4

il critico come artista

OSCAR WILDE

IL CRITICO COME ARTISTA

Con alcune considerazioni sull’importanza del non fare niente

Titolo originale: The Critic as Artist – With some remarks upon the importance of doing nothing

Traduzione dall’originale in inglese di Marco Vignolo Gargini

BREVE NOTA INTRODUTTIVA A CURA DEL TRADUTTORE.

La rivista londinese “The Nineteenth Century”, la stessa che pubblicò nel 1889 il dialogo The Decay of Lying – An observation, ospitò nei due numeri di luglio e settembre del 1890 un nuovo dialogo di Oscar Wilde dal titolo The True Function and Value of Criticism (with some remarks upon the importance of doing nothing). L’opera venne ripresa e ampliata dallo stesso Wilde per essere inserita in volume all’interno della raccolta saggistica Intentions, pubblicata nel 1891, raccolta che contiene il già citato The Decay of Lying oltre a Pen, Pencil and Poison, The Truth of masks e il testo qui tradotto, con il nuovo titolo The Critic as Artist – With some remarks upon the importance of doing nothing.

Leggere oggi questo dialogo significa affrontare la sorprendente attualità dei temi discussi da Wilde, non solo in ambito critico e artistico. Significa anche riaffermare quanto sia stato trascurato l’autore irlandese e così poco compresa la portata culturale della sua opera saggistica. The Critic as Artist – With some remarks upon the importance of doing nothing si lega al precedente The Decay of Lying sviluppando gli aspetti del ruolo, oserei dire, civile della figura del critico d’arte. In questo la “battaglia” estetica di Wilde acquista una nuova, importante rilevanza, che sarà poi ribadita nel saggio seguente The Soul of Man under Socialism. D’altronde, basta scorrere frasi come quelle che seguono per rendersi conto di come, a distanza di più di un secolo, il tema tanto caro a Wilde della cultura, che dovrebbe essere il primo obiettivo d’ogni politica interna ed estera, sia tuttora desolatamente negletto:

«Se in noi c’è la tentazione di muovere guerra a un’altra nazione, ricorderemo che stiamo cercando di distruggere un elemento della nostra stessa cultura, e forse il suo più importante elemento. Finché la guerra sarà considerata malvagia, avrà sempre il suo fascino. Quando la si considererà volgare, cesserà d’esser popolare.»

La critica d’arte wildiana ha aperto un varco, indubbiamente, sebbene alcuni studiosi si ostinino, per snobismo pregiudiziale, a non riconoscere quanto dobbiamo oggi alla curiosità intellettuale e all’acutezza speculativa di Wilde. Se pensiamo a un critico letterario così onnicomprensivo come Harold Bloom, specie nei suoi Western canon (1994) e Genius (2002), non possiamo fare a meno di parlare di vera e propria eredità wildiana. Tra parentesi, sia Bloom che Wilde considerano Dante e Shakespeare tra i padri assoluti della letteratura occidentale, e a loro dedicano pagine e pagine del proprio lavoro critico. In The Critic as Artist Wilde cita e commenta Dante, ed è Wilde stesso a tradurlo dalla versione originale in italiano a lui ben nota della Divina Commedia. Non occorre aggiungere che la parte del saggio dedicata al sommo poeta fiorentino sia qualcosa di più di un semplice omaggio all’amore che Wilde nutrì per la lingua e la cultura italiana.

In questo saggio e, soprattutto, in opere quali The Truth of Masks e The Portrait of Mr. W.H., Shakespeare si erge a protagonista assoluto di un’analisi meticolosa e perspicace che non ha l’eguale per intensità e profonda conoscenza. Wilde, a differenza dei normali critici letterari, dimostra d’essere qualcosa di più di un semplice commentatore dell’opera di Shakespeare. Il suo vantaggio è quello di rivelarsi pienamente come uomo di teatro. Attraverso lo studio della messa in scena, dei personaggi, delle caratteristiche storiche delle opere del divin Bardo, Wilde ci fornisce delle osservazioni che lui stesso metterà in pratica come autore, nella forma del society drama, le sue famose commedie, e in altri testi teatrali, la Salomé, la Sainte Courtisaine, The Cardinal of Avignon, A Florentine Tragedy, Constance, di cui solo la Salomé c’è pervenuta integralmente.

The Critic as Artist ci parla, inoltre, dello spinoso argomento dell’immoralità nell’arte, argomento che non è passato, ahimè, con lo scorrere del tempo. Finché esisteranno riviste che recensiscono film con un “giudizio morale”, o integralismi religiosi e ideologici che mettono il bavaglio all’arte in nome delle loro Verità, Wilde resterà ancora un paladino della libertà creativa dell’artista e della superiorità dell’estetica sull’etica.

Per approfondimenti su The Critic as Artist e sulle altre opere di critica estetica di Oscar Wilde vi rimando al mio saggio Oscar Wilde: le intenzioni dell’arte della critica.

Oscar Wilde (Dublino 1854-Parigi 1900), nella sua breve ma intensa carriera letteraria, ha spaziato in più generi, dalla poesia (Poems 1881), fino ai racconti (The house of pomegranates, The Lord Arthur Savile’s crime and other tales 1891), agli scritti critici [quelli raccolti in Intentions (1891) oltre al già citato The Decay of Lying – An observation, The Critic of Artist – With some remarks upon the importance of doing nothing, Pen, Pencil and Poison, e The Truth of Masks, più The Rise of Historical Criticism (1878), The Portrait of Mr. W.H. (1889) e The Soul of Man under the Socialism (1891)], all’unico romanzo The Picture of Dorian Gray (1891), alle commedie [Lady Windermere’s fan (1892); A Woman of No Importance (1893); An ideal husband (1895); The Importance of being Earnest (1895)], all’opera teatrale più famosa Salomé (1892), e alle ultime opere, De Profundis (1897) e The ballad of Reading Gaol (1898).

Marco Vignolo Gargini ha già tradotto da Wilde le seguenti opere: Il ritratto di Dorian Gray; La decadenza della menzogna; Salomé; Il Critico come artista; Penna, matita e veleno; La Sainte Courtisaine; L’Anima dell’uomo sotto il socialismo; Epigrammi. È anche autore del saggio Oscar Wilde -Il critico artista, Prospettiva editrice, 2007.

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DIALOGO. Parte I. Personaggi: GILBERT ed ERNEST

SCENA: la biblioteca di una casa a Piccadilly, che domina dall’alto il Green Park.

GILBERT. (al pianoforte) Mio caro Ernest, di cosa stai ridendo?

ERNEST. (alzando gli occhi) Di una magnifica storia in cui mi sono imbattuto proprio ora in questo volume di memorie che ho trovato sul tuo tavolo.

GILBERT. Che libro è? Ah! Capisco. Ancora non l’ho letto. È un buon libro?

ERNEST. Beh, mentre tu stavi suonando, ho scorso le pagine con un certo spasso, sebbene, di regola, io non ami i testi moderni di memorie. In genere sono scritti da persone che o hanno perso del tutto la propria memoria, oppure non hanno combinato niente che sia degno d’essere ricordato; il che, tuttavia, è indubbiamente la spiegazione effettiva della loro popolarità, dato che il pubblico inglese si sente sempre perfettamente a suo agio quando è una mediocrità a parlargli.

GILBERT. Sì, il pubblico è meravigliosamente tollerante. Perdona tutto fuorché il genio. Ma debbo confessare che a me le memorie piacciono tutte. Mi piacciono per la loro forma così come per il loro argomento. In letteratura il mero egotismo è delizioso. È ciò che ci affascina nelle lettere di personalità differenti quali Cicerone e Balzac, Flaubert e Berlioz, Byron e Madame de Sévigné. Tutte le volte che ci imbattiamo nell’egotismo, e, alquanto stranamente, è piuttosto raro, non possiamo non salutarlo con favore e non lo dimentichiamo facilmente. L’umanità amerà per sempre Rousseau per il fatto che ha confessato i suoi peccati non a un curato, ma al mondo, e le coricate ninfe che Cellini forgiò in bronzo per il castello del re Francesco, persino il verde e aureo Perseo che nella Loggia aperta di Firenze ostenta alla luna il morto terrore che un tempo tramutava la vita in pietra, non hanno donato più piacere di quella autobiografia in cui il supremo furfante del Rinascimento narra la vicenda del suo splendore e della sua vergogna. Le opinioni, il carattere, le imprese dell’uomo, contano davvero poco. Egli può essere uno scettico come il gentile Sieur de Montaigne, o un santo come il figlio penoso di Monica, ma quando ci racconta i suoi segreti più reconditi può sempre incantare movendo all’ascolto le nostre orecchie e al silenzio le nostre labbra. Il modo di pensare che il cardinale Newman rappresentava – ammesso si possa definire modo di pensare quello che cerca di risolvere i problemi intellettuali con una negazione della supremazia dell’intelletto – credo che non possa sopravvivere. Ma il mondo non si annoierà mai ammirando quell’anima afflitta nel suo progredire dall’oscurità verso l’oscurità. La solitaria chiesa di Littlemore, dove “il respiro mattutino è madido, e i fedeli sono sparuti”, sarà sempre cara al mondo, e tutte le volte che gli uomini vedono la gialla bocca di leone fiorire sul muro del Trinità penseranno a quel grazioso studente che scorse nella sicura ricorrenza del fiore una profezia della sua sempiterna permanenza con la Madre Benigna dei suoi giorni – una profezia che la Fede, nel suo volto saggio o folle, non permise che si avverasse. Sì; l’autobiografia è irresistibile. Il povero, sciocco, vanitoso Signor Segretario Pepys che, a forza di ciarle, s’è fatto strada nella cerchia degli Immortali, e , conscio che l’indiscrezione è la pArte migliore del valore, si muove in mezzo a loro indossando quella ‘ispida veste purpurea con bottoni d’oro e pizzo annodato’ che è così preso a descriverci, perfettamente a suo agio, e loquace, con suo proprio e nostro infinito piacere, della sottana indiana blu che ha acquistato per sua moglie, delle ‘gustose frattaglie di porco’, e della ‘squisita fricassea francese di vitello’ che egli amava mangiare, della sua gara a bocce con Will Joyce, e del suo ‘star dietro alle bellezze’, e del suo declamare l’Amleto la domenica, e del suo suonare la viola nei giorni feriali, o di altre cose viziose e triviali. Persino nella vita attuale l’egotismo ha le sue attrattive. Quando le persone ci parlano degli altri sono di solito monotone. Ma quando ci parlano di sé sono quasi sempre interessanti, e se si potesse zittirle quando diventano noiose così facilmente come si può chiudere un libro che ci ha tediato, sarebbero assolutamente perfette.

ERNEST. C’è molta virtù in quel se, come direbbe Touchstone. Ma tu proponi sul serio che ogni uomo diventi il Boswell di sé? Che ne sarebbe in quel caso dei nostri industriosi compilatori di Vite e Rimembranze ?

GILBERT. Cosa ne è stato di loro? Sono la peste del secolo, né più né meno. Ogni grande uomo oggi ha i suoi discepoli, ed è sempre Giuda che scrive la biografia.

ERNEST. Amico mio caro!

GILBERT. Temo sia vero. Una volta canonizzavamo i nostri eroi. Il metodo moderno consiste nel volgarizzarli. Le edizioni a basso prezzo dei grandi libri possono essere gradevoli, ma le edizioni economiche dei grandi uomini sono assolutamente detestabili.

ERNEST. Posso chiederti, Gilbert, a chi alludi?

GILBERT. Oh! A tutti i nostri uomini di lettere di basso profilo. Noi siamo inondati da un gruppo di persone che nel momento in cui un poeta o un pittore scompare, arriva in casa con le pompe funebri e dimentica che il suo unico dovere è di restare muto. Ma non parliamo di loro. Loro sono semplicemente quelli che riesumano i cadaveri della letteratura. A uno la polvere, all’altro le ceneri, e l’anima va oltre la loro possibilità. E ora, lascia che ti suoni Chopin, o Dvorák? Desideri che ti suoni una fantasia di Dvorák? Scrive brani appassionati, curiosamente variopinti.

ERNEST. No; adesso la musica non mi va. È troppo indefinita. Inoltre, l’altra sera ho portato a cena la baronessa Bernstein, e, pur essendo assolutamente incantevole sotto ogni altro riguardo, lei ha insistito a discutere di musica come se fosse composta davvero in lingua tedesca. Ora, qualunque cosa la musica sembri, sono lieto di affermare che non assomiglia per nulla al tedesco. Vi sono forme di patriottismo che risultano davvero piuttosto degradanti. No; Gilbert, non suonare più. Voltati e parla con me. Parlami finché il giorno dalle bianche corna non spunti nella stanza. C’è un che di meraviglioso nella tua voce.

GILBERT. (alzandosi dal pianoforte) Non sono nello stato d’animo adatto per parlare stanotte. Che fai, sorridi? Come sei orribile! No, non sono nello stato d’animo adatto. Dove sono le sigarette? Grazie. Come sono deliziosi questi asfodeli! Sembrano d’ambra e d’avorio gelido. Somigliano a opere Greche del periodo migliore. Che cos’era quella storia nelle confessioni dell’accademico tormentato che ti ha fatto ridere? Raccontamela. Dopo aver suonato Chopin, mi sento come se avessi pianto su peccati che non ho mai commesso, e mi fossi lamentato di tragedie che non erano le mie. La musica mi sembra sempre produrre questo effetto. Ti crea un passato del quale eri ignaro, e ti colma con un senso di sofferenze che erano state nascoste alle tue lacrime. Posso immaginare un uomo che ha condotto una vita perfettamente comune, e che all’ascolto casuale di un qualche curioso brano di musica, d’un tratto scopra che la sua anima, senza che lui se ne sia reso conto, ha attraversato terribili esperienze e conosciuto gioie paurose, o tempestosi amori romantici, o grandi rinunce. E adesso raccontami questa storia, Ernest. Voglio essere divertito.

ERNEST. Oh! Non so se ha una qualche importanza. Ma l’ho considerata veramente una illustrazione ammirevole del valore autentico della critica d’Arte ordinaria. Pare che una signora una volta chiese con gravità all’accademico tormentato, come lo chiami tu, se la sua celebre tela dal titolo Giornata di primavera al Whiteley, o, Aspettando l’ultimo omnibus, o un soggetto di quel genere, era stato tutto dipinto a mano?

GILBERT. E lo era?

ERNEST. Sei proprio incorreggibile. Ma, parlando seriamente, a che pro la critica d’Arte? Perché l’artista non può essere lasciato solo a creare un nuovo mondo se lo desidera, o, altrimenti, a adombrare il mondo che già conosciamo e del quale, mi immagino, tutti quanti noi ci stancheremmo se l’Arte, con il suo bello spirito d’elezione e delicato istinto di selezione, non ce lo purificasse, per così dire, e gli fornisse una momentanea perfezione? Mi sembra che l’immaginazione diffonda, o dovrebbe diffondere, una solitudine intorno, e che operi meglio nel silenzio e nell’isolamento. Perché l’artista dovrebbe essere infastidito dal clamore stridulo della critica? Perché coloro che non sono in grado di creare si dovrebbero incaricare di stimare il valore dell’opera creativa? Che ne sanno loro? Se l’opera di un uomo è facile da capire, una spiegazione è inutile…

GILBERT. E se la sua opera è incomprensibile, una spiegazione è maliziosa.

ERNEST. Non ho detto questo.

GILBERT. Ah! Però avresti dovuto dirlo. Oggi ci restano così pochi misteri che non possiamo permetterci di rinunciare a uno di essi. I membri della Browning Society, come i teologi del Broad Church Partey, o gli autori della Serie di Grandi Scrittori di Mr. Walter Scott, mi sembra che passino il tempo a tentare di spiegare invano la loro divinità. Là dove si era sperato che Browning fosse un mistico essi hanno cercato di dimostrare che era semplicemente uno che aveva difficoltà ad esprimersi. Là dove si era immaginato che egli avesse qualcosa da nascondere, costoro hanno provato che aveva soltanto poco da rivelare. Ma io parlo solo della sua opera incoerente. Preso nella sua totalità l’uomo fu grande. Non appartenne alla schiera degli Olimpi, ed ebbe tutte le incompletezze del Titano. Non contemplava, e solo raramente fu in grado di cantare. La sua opera è sciupata da lotta, violenza e sforzo, ed egli non passò dall’emozione alla forma, ma dal pensiero al caos. Ciò nonostante, fu grande. È stato definito un pensatore, e fu certo un uomo che pensava sempre, e pensava sempre ad alta voce; non era il pensiero che lo affascinava, ma piuttosto i processi attraverso i quali il pensiero procede. Era la macchina che lui amava, non ciò che la macchina fa. Il metodo con cui il folle giunge alla sua follia gli era così gradito come la saggezza fondamentale del sapiente. Così tanto, invero, lo affascinava il sottile meccanismo della mente che ebbe in spregio il linguaggio, o lo considerò come uno strumento incompleto dell’espressione. La rima, quell’eco squisita che nel cavo colle delle Muse crea la sua propria voce e le risponde; la rima, che nelle mani del vero artista diviene non solamente un elemento materiale della bellezza metrica, ma un elemento spirituale del pensiero e anche della passione, destando un nuovo stato d’animo, può darsi, o stimolando una serie nuova di idee, o aprendo tramite la pura dolcezza e la suggestione del suono una qualche aurea porta alla quale la stessa Immaginazione aveva invano bussato; la rima, che può tramutare l’emissione umana in discorso divino; la rima, l’unica corda che abbiamo aggiunto alla lira greca, nelle mani di Robert Browning divenne una cosa grottesca, deforme, che talvolta lo fece mascherare in poesia come un attore gigione e cavalcare Pegaso troppo spesso con la sua messinscena. Vi sono momenti in cui egli ci ferisce con una mostruosa musica. Anzi, se può solo raggiungere la sua musica rompendo le corde del suo liuto, lui le rompe, e loro saltano su in discordanza, e nessuna cicala ateniese, creando una melodia da tremule ali, si posa sul corno eburneo per rendere il movimento perfetto, o l’intervallo meno stridente. Eppure, egli fu grande: e benché tramutasse il linguaggio in ignobile argilla lo ricavò da uomini e donne viventi. Egli è la creatura più shakespeariana sin dai tempi di Shakespeare. Se Shakespeare seppe cantare con mille labbra, Browning sapeva balbettare con mille bocche. Anche adesso, mentre sto parlando, e sto parlando non contro di lui ma a suo favore, scorre per la stanza la processione dei suoi personaggi. Lì, avanza lentamente Fra Lippo Lippi con le sue guance ancora ardenti del caldo bacio di una giovane donna. Lì, si staglia il temibile Saul con i fastosi zaffiri maschi rilucenti sul suo turbante. Mildred Tresham è lì, e il monaco Spagnolo, terreo d’odio, e Blougram, e Ben Ezra, e il vescovo di Santa Prassede. La progenie di Setebo borbotta nell’angolo, e Sebald, ascoltando Pippa che passa, guarda il viso stravolto di Ottima, e detesta lei e il suo peccato, e se stesso. Pallido come il bianco satin del suo farsetto, il re melanconico osserva con sognanti proditorii occhi il troppo leale Strafford avanzare verso il suo patibolo, e Andrea trema mentre ode il fischio del cugino nel giardino, e implora la sua moglie perfetta di scendere. Sì, Browning fu grande. E in che modo sarà ricordato? Come un poeta? Ah, non come un poeta! Sarà ricordato come scrittore fantastico, come il più supremo scrittore fantastico che, probabilmente, abbiamo mai avuto. Il suo senso della situazione drammatica fu inarrivabile, e, se non riuscì a risolvere i suoi problemi, fu almeno in grado di porre i problemi, e che cosa potrebbe fare di più un artista? Considerato dal punto di vista di un creatore di personaggi è inferiore solo a colui che inventò Amleto. Se fosse stato articolato, avrebbe potuto sedergli accanto. L’unico uomo che può toccargli l’orlo del suo vestito è Gorge Meredith. Meredith è un Browning in prosa, come lo è Browning. Utilizzò la poesia come mezzo per scrivere in prosa.

ERNEST. C’è qualcosa in quello che dici, ma non c’è tutto in quello che dici. In molti punti tu sei ingiusto.



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