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Oscar Wilde – Il critico come artista 6

Creato il 24 dicembre 2012 da Marvigar4

il critico come artista

OSCAR WILDE

IL CRITICO COME ARTISTA

Con alcune considerazioni sull’importanza del non fare niente

Titolo originale: The Critic as Artist – With some remarks upon the importance of doing nothing

Traduzione dall’originale in inglese di Marco Vignolo Gargini

Parte II. Personaggi: GILBERT ed ERNEST. Scena: la biblioteca di una casa a Piccadilly, che domina dall’alto il Green Park.

ERNEST. Gli ortolani erano squisiti, e lo Chambertin perfetto, e ora torniamo al punto in questione.

GILBERT. Ah! non facciamolo. La conversazione dovrebbe toccare tutto, ma dovrebbe concentrare se stessa su niente. Parliamo di Indignazione morale, la sua causa e la sua cura, un soggetto su cui penso di scrivere: o de La sopravvivenza di Tersite, com’è illustrata dai giornali comici inglesi; o di qualsiasi argomento possa venir fuori.

ERNEST. No; voglio discutere del critico e della critica. Tu mi hai detto che la critica più alta si occupa dell’arte, non in quanto espressiva, ma puramente come impressione, e che di conseguenza è sia creativa che indipendente, è infatti un’arte in se stesso, avendo la stessa relazione con l’opera creativa che l’opera creativa ha con il mondo visibile della forma e del colore, o con il mondo invisibile della passione e del pensiero. Bene, adesso, dimmi, il critico non sarà talvolta un vero interprete?

GILBERT. Sì; il critico sarà un interprete, se sceglie di esserlo. Egli può passare dalla sua impressione sintetica dell’opera d’arte come un tutto, ad un’analisi o esposizione dell’opera stessa, e in questa sfera inferiore, come io la considero, vi sono molte cose deliziose da dirsi e da farsi. Oltretutto il suo oggetto non sarà sempre riferito all’opera d’arte. Egli può cercare di addentrarsi nel mistero dell’opera d’arte, di alzare intorno a essa, e intorno al suo creatore, quella bruma di stupore che è cara agli dèi come ai fedeli. La gente comune è «terribilmente a suo agio a Sion». Propone di passeggiare a braccetto con i poeti, e dicono in modo disinvolto e ignorante, «perché dovremmo leggere ciò che viene su Shakespeare e Milton? Possiamo leggere i drammi e i poemi. Questo basta». Ma una valutazione di Milton è, come l’ultimo rettore di Lincoln rimarcò una volta, il premio di un sapere completo. E colui che desidera comprendere Shakespeare veramente deve capire le relazioni che Shakespeare ebbe con il Rinascimento e la Riforma, l’epoca di Elisabetta e l’epoca di Giacomo; deve avere familiarità con la storia della lotta per la supremazia tra le vecchie forme classiche e il nuovo spirito del romance, tra la scuola di Sidney, di Daniel, e di Johnson, e la scuola di Marlowe e del più grande figlio di; deve conoscere i materiali che furono a disposizione di Shakespeare, e il metodo con cui li usò, e le condizioni della rappresentazione teatrale nel sedicesimo e diciassettesimo secolo, i loro limiti e le loro chances per la libertà, e la critica letteraria ai tempi di Shakespeare, i suoi scopi, i modi e i canoni; deve studiare la lingua inglese nella sua evoluzione, nel blank verse o nel verso rimato nei suoi vari sviluppi; deve studiare il dramma greco, e la connessione tra l’arte del creatore di Agamennone e l’arte del creatore di Macbeth; in una parola, dev’essere in grado di legare la Londra elisabettiana all’Atene di Pericle, e di apprendere la vera posizione di Shakespeare nella storia del dramma europeo e mondiale. Il critico sarà certamente un interprete, ma non tratterà l’arte come una Sfinge che propone enigmi, il cui segreto meno profondo può essere indovinato e rivelato da uno dai piedi feriti e ignaro del suo nome. Piuttosto, egli contemplerà l’arte come una dea il cui mistero è sua competenza intensificare, e la cui maestà è suo privilegio rendere più meravigliosa agli occhi degli uomini.

E qui, Ernest, avviene questa strana cosa. Il critico sarà davvero un interprete, ma non lo sarà nel senso di uno che ripete semplicemente in un’altra forma un messaggio che gli è stato messo in bocca. Poiché, proprio come solo attraverso il contatto con l’arte delle nazioni straniere che l’arte di un paese acquista quella vita individuale e separata che noi chiamiamo nazionalità, così, per curiosa inversione, è solo attraverso l’intensificazione della sua propria personalità che il criticò può interpretare la personalità e l’opera di altri, e più questa personalità entra con forza nell’interpretazione più reale diventa l’interpretazione, più soddisfacente, più convincente, più vera.

ERNEST. Avrei detto che la personalità fosse un elemento di disturbo.

GILBERT. No; è un elemento di rivelazione. Se vuoi comprendere gli altri devi intensificare il tuo individualismo.

ERNEST. E qual è allora il risultato?

GILBERT. Te lo dirò, e forse te lo posso dire con un esempio preciso. A me sembra che, mentre il critico letterario è naturalmente al primo posto, avendo una gamma più ampia, e una più larga visione, e un più nobile materiale, ognuna delle arti possiede un critico, per così dire, a lei assegnato. L’attore è un critico del dramma. Egli mostra l’opera del poeta in condizioni nuove e attraverso un metodo a lui congeniale. Egli prende la parola scritta e l’azione, il gesto e la voce diventano i mezzi della rivelazione. Il cantante o il suonatore di liuto e viola è il critico della musica. L’incisore di un quadro priva la pittura dei suoi bei colori, ma ci mostra attraverso l’uso di un nuovo materiale la sua vera qualità cromatica, i suoi toni e valori, e i rapporti delle sue masse, e così ne è, a suo modo, un critico, perché il critico è colui che ci mostra un’opera d’arte in una forma diversa da quella dell’opera stessa, e l’impiego di un nuovo materiale è un elemento sia critico che creativo. Anche la scultura, ha il suo critico, che può essere sia l’intagliatore di una gemma, come ai tempi dei greci, o un pittore come Mantegna, che cercò di riprodurre su tela la bellezza della linea plastica e la sinfonica dignità del bassorilievo processionale. E nel caso di tutti questi critici d’arte creativi è evidente che la personalità è un elemento assolutamente essenziale per ogni vera interpretazione. Quando Rubinstein ci suona la Sonata appassionata di Beethoven, non ci offre solo Beethoven, ma anche se stesso, e così ci offre Beethoven in assoluto – Beethoven re-interpretato da una ricca natura artistica, e per noi reso vivido e meraviglioso da una nuova e intensa personalità. Quando un grande attore recita Shakespeare noi abbiamo la stessa esperienza. La sua propria individualità diventa una parte dell’interpretazione. La gente talvolta dice che gli attori ci danno i loro Amleto e non quelli di Shakespeare; e questa fallacia – perché è una fallacia – è, mi spiace dirlo, ripetuta da quello scrittore grazioso e affascinante che ha ultimamente abbandonato il tumulto della letteratura per la pace della House of Commons, cioè l’autore di Obiter dicta. Di fatto, non esiste una cosa come l’Amleto di Shakespeare. Se Amleto possiede qualcosa della definitezza di un’opera d’Arte, possiede anche tutta l’oscurità che appartiene alla vita. Vi sono tanti Amleto quante sono le malinconie.

ERNEST. Tanti Amleto quante sono le malinconie?

GILBERT. Sì: e come l’arte sorge dalla personalità, così è solo alla personalità che essa può essere rivelata, e dall’incontro delle due nasce la critica interpretativa.

ERNEST. Il critico, allora, considerato come l’interprete, non dà meno di ciò che riceve, e presta tanto quanto prende?

GILBERT. Egli ci mostrerà sempre l’opera d’arte in una qualche nuova relazione con la nostra epoca. Lui ci ricorderà sempre che le grandi opere d’arte sono cose vive – sono, infatti, le sole cose vive. Ed egli, veramente, sentirà questo a tal punto che, ne sono certo, man mano che la civilizzazione progredisce e noi diventiamo organizzati in sommo grado, gli spiriti eletti di ogni epoca, gli spiriti colti e critici, perderanno sempre più interesse alla vita vera, e cercheranno di ottenere le loro impressioni quasi del tutto da ciò che l’arte ha toccato. Perché la vita è tremendamente deficiente nella forma. Le sue catastrofi avvengono nel modo sbagliato e alle persone sbagliate. V’è un orrore grottesco nelle sue commedie, e le sue tragedie sembrano culminare nella farsa. Si è sempre feriti quando ci avviciniamo alla vita. Le cose durano troppo, o troppo poco.

ERNEST. Povera vita! Povera vita umana! Non sei nemmeno commosso dalle lacrime che il poeta romano definisce far parte della sua essenza.

GILBERT. Mi commuovono troppo presto, temo. Poiché quando ci si volge indietro a guardare la vita che era così vivida nella sua intensità emotiva, e colma di momenti talmente fervidi di estasi o di gioia, tutto pare un sogno e un’illusione. Quali sono le cose irreali, se non le passioni che un tempo ci bruciarono come fuoco? Quali sono le cose incredibili, se non quelle in cui credemmo con fede? Quali sono le cose improbabili? Le cose che noi stessi facemmo. No, Ernest; la vita ci inganna con ombre, come un burattinaio. Le chiediamo il piacere. Lei ce lo dà in cambio di amarezza e delusione. Ci imbattiamo in qualche nobile dolore che riteniamo darà ai nostri giorni la purpurea dignità della tragedia, ma se ne va da noi e cose meno nobili prendono il posto, e in una grigia alba piena di vento, o in un’odorosa sera di silenzio e d’argento, noi ritroviamo noi stessi a contemplare con ottusa meraviglia, o con sordo cuore di pietra, la treccia picchiettata d’oro che una volta abbiamo così sfrenatamente adorato e così pazzamente baciato.

ERNEST. Allora la vita è un fallimento?

GILBERT. Dal punto di vista artistico, certamente. E la cosa principale che rende la vita un fallimento da questo punto di vista artistico è ciò che dà alla vita la sua sordida sicurezza, il fato che non si possa mai ripetere esattamente la stessa emozione. Com’è diverso nel mondo dell’arte! Dietro di te. su uno scaffale della libreria, c’è la Divina Commedia, e io so che, se la apro in un certo punto, sarò colmo di un odio feroce per qualcuno che non mi ha mai fatto torto, o mosso da un grande amore per qualcuno che non ho mai visto. Non esiste stato d’animo o passione che l’arte non possa darci, e chi di noi ha scoperto il suo segreto può determinare in anticipo quali saranno le nostre esperienze. Possiamo scegliere il nostro giorno e selezionare la nostra ora. Possiamo dire a noi stessi, «Domani, all’alba, cammineremo con il grave Virgilio attraverso la valle dell’ombra di morte», e guarda! L’alba ci trova nella selva oscura, e il Mantovano è accanto a noi. Attraversiamo la porta della leggenda fatale alla speranza, e con pietà o gioia ammiriamo l’orrido di un altro mondo. Gli ipocriti passano, con i loro volti dipinti e le loro tonache di piombo dorato. Fuori dai venti incessanti che li conducono, i lussuriosi ci guardano, e noi osserviamo l’eretico mentre lacera la sua carne, e il goloso frustato dalla pioggia. spezziamo i rami secchi dell’albero nel boschetto delle Arpie, e ogni ramoscello dai tristi guaiti e velenoso sprizza sangue rosso davanti a noi, e urla forte con grida amare. Fuori dal corno della fiamma Ulisse ci parla, e quando dal suo sepolcro infuocato s’erge il grande Ghibellino, l’orgoglio che trionfa sulla tortura di quel letto diventa nostro per un momento. Per l’aria fosca e purpurea volano coloro che hanno macchiato il mondo con la bellezza del loro peccato, e nel pozzo del nauseante morbo, e con il corpo affetto da idropisia e gonfio tanto da assumere la sembianza di un mostruoso liuto, giace Adamo di Brescia, il coniatore di moneta falsa. Egli ci prega di ascoltare la sua sofferenza; ci arrestiamo, and con labbra secche e dilatate ci narra come sognasse giorno e notte i ruscelli d’acqua chiara che nei freschi e rugiadosi canali scendono per le verdi colline del Casentino. Sinone, il falso greco di Troia, lo irride. Lui gli percosse il volto, e si azzuffano. Siamo affascinati dalla loro vergogna, e indugiamo, finché Virgilio non ci richiama e ci mena a quella città turrita di giganti dove il grande Nembrotte suona il suo corno. Terribili cose per noi si apprestano, e noi andiamo loro incontro nei panni di Dante e con il cuore di Dante. Traversiamo le paludi dello Stige, e Argenti nuota verso la barca tra l’onde melmose. Ci chiama, e noi lo respingiamo. Quando udiamo la voce del suo patimento ne siamo lieti, e Virgilio ci loda per l’amarezza del nostro disdegno. Avanziamo sul gelido cristallo del Cocito, in cui i traditori s’ergono come pagliuzze nel vetro. Il nostro piede urta contro il capo Bocca. Egli non ci dirà il suo nome, e noi strappiamo i capelli a manciate dal cranio urlante. Alberigo ci implora di rompere il ghiaccio sulla sua faccia perché possa piangere un poco. Gli diamo la nostra parola, e quando lui ha pronunciato il suo doloroso racconto neghiamo la parola che avevamo dato, e lo oltrepassiamo; tale crudeltà che in fondo è cortesia, perché chi più vile di colui che ha pietà per i dannati da Dio? Nelle fauci di Lucifero scorgiamo l’uomo che vendette Cristo, e nelle fauci di Lucifero gli uomini che pugnalarono a morte Cesare. Tremiamo, and usciamo a riveder le stelle.

Nella terra del Purgatorio l’aria è più libera, e la montagna sacra s’innalza nella pura luce del giorno. C’è pace per noi, e c’è una pace anche per coloro che vi albergano per una stagione, sebbene, pallida del veleno della Maremma, Madonna Pia ci passa davanti, e Ismene, con il dolore della terra ancora posata su di lei, è là. Un’anima dietro l’altra ci fa condividere qualche pentimento o qualche gioia. Colui al quale il lutto della sua vedova insegnò a bere il dolce assenzio dell’afflizione, ci racconta di Nella orante nel suo letto solitario, e apprendiamo dalla bocca di Buonconte come una singola lacrima possa salvare un morente peccatore dal demonio. Sordello, quel nobile e altero lombardo, ci adocchia da lontano come un leone coricato. Quando viene a sapere che Virgilio è un cittadino di Mantova, si getta tra le sue braccia, e quando capisce che è il cantore di Roma si prostra ai suoi piedi. Nella valle in cui l’erba e i fiori sono più belli dello smeraldo tagliato e del legno indiano, più splendenti dello scarlatto e dell’argento, se ne stanno a cantare quelli che nel mondo furono re; ma le labbra di Rodolfo d’Asburgo non si muovono alla musica degli altri, e Filippo di Francia si batte il petto e Enrico d’Inghilterra siede da solo. Noi procediamo e procediamo, salendo la meravigliosa scala, e gli astri diventano più grandi del solito, e il canto dei re si affievolisce, e per ultimo raggiungiamo i sette alberi d’oro e il giardino del Paradiso Terrestre. In un carro tirato dai grifoni appare una la cui fronte e cinta d’olivo, velata di bianco, e di verde ammantata, e abbigliata in un vestimento dal colore fuoco vivo. La fiamma antica si ridesta in noi. Il nostro sangue scorre veloce nelle vene con terribili pulsazioni. La riconosciamo. È Beatrice, la donna che abbiamo adorato. Si scioglie il sangue congelato intorno al nostro cuore. Lacrime sfrenate d’angoscia erompono dai nostri occhi, e noi chiniamo il nostro capo fino a terra, consci d’aver peccato. Quando abbiamo fatto penitenza, e ci siamo purificati, e avendo bevuto alla fonte del Lete e bagnati alla fonte di Eunoe, la signora della nostra anima ci eleva al Paradiso celeste. Da quella perla eterna, la luna, il viso di Piccarda Donati a noi si protende. Ci turba per un momento la sua beltà, e quando, come una cosa che cade nell’acqua, lei se ne va, continuiamo a fissarla con occhi assorti. Il dolce pianeta di Venere è pieno di amanti. Cunizza, la sorella di Ezzelino, la donna del cuore di Sordello, è là, e Folco, il cantore appassionato di Provenza, che addolorato per Azalais abbandonò il mondo, e c’è la prostituta di Canaan la cui anima fu la prima redenta da Cristo. Gioacchino da Fiore è in piedi nel sole, e, nel sole, l’Aquinate racconta la storia di San Francesco e Bonaventura la storia di San Domenico. Attraverso gli ardenti rubini di Marte, Cacciaguida si avvicina. Ci narra del dardo scoccato da l’arco de lo esilio, e di come sa di sale lo pane altrui, e di come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale. In Saturno le anime non cantano, e persino colei che ci guida non osa sorridere. Su una scala d’oro le fiamme s’alzano e s’abbassano. Alla fine, noi vediamo l’ostentazione della Rosa Mistica. Beatrice fissa il suo sguardo sul volto di Dio per non stornarli più. La visione beatifica ci è concessa; conosciamo l’Amore che muove il Sole e l’altre stelle.

Sì, si può far regredire la terra di seicento moti e diventare tutt’uno con il grande Fiorentino, inginocchiarci allo stesso altare con lui, e condividerne il rapimento e l’indignazione. E se ci stanchiamo del tempo antico, e desideriamo apprendere la nostra epoca in tutta la sua lassitudine e il suo peccato, non vi sono libri che possono farci vivere più in un’ora singola che non la vita in un ventennio di vergogna? Vicino alla tua mano c’è un piccolo volume, rilegato in pelle color verde Nilo che è stato cosparso di dorati nenuferi e levigato di duro avorio. È il libro che Gautier amò, è il capolavoro di Baudelaire. Aprilo a quel madrigale triste che inizia

Que m’importe que tu sois sage?

Sois belle! et sois triste! [1]

e troverai te stesso a adorare il dolore come non hai mai adorato la gioia. Passa alla poesia sull’uomo che tortura se stesso, lascia che la sua sottile musica penetri nel tuo cervello e colori i tuoi pensieri, e diverrai per un momento ciò che fu colui che la scrisse; anzi, non solo per un momento, ma per molte notti di luna arida e per molti giorni sterili senza sole una disperazione che non è tua risiederà in te, e l’infelicità di un altro roderà il tuo cuore. Leggi tutto il libro, sopporta che narri anche uno dei suoi segreti alla tua anima, e la tua anima si farà avida di sapere di più, e si nutrirà di miele avvelenato, e tenterà di pentirsi di strani crimini di cui è senza colpa, e di fare ammenda di terribili piaceri che non ha mai conosciuto. E poi, quando sei stanco di questi fiori del male, torna ai fiori che crescono nel giardino di Perdita, e nei loro calici bagnati di rugiada rinfresca la tua fronte febbricitante, e fa che la loro gradevolezza guarisca e ristori la tua anima; o ridesta dalla sua tomba dimenticata il dolce siriano, Meleagro, e ordina all’amante di Eliodoro di eseguire per te della musica, poiché anch’egli ha fiori nei suoi canti, rossi bocci di melograno e iris che profumano di mirra, asfodeli in serti e giacinti blu scuro, e maggiorana e occhi di bue intrecciati. Gli era caro l’olezzo del campo di fagioli la sera, e caro l’odoroso spiganardo che cresce sui colli siriani, e il fresco timo verde, ornamento della coppa del vino. I piedi del suo amore mentre passeggiava nel giardino erano come gigli su gigli. Più soffici di petali di papavero soporifero erano le sue labbra, più soffici delle violette e profumati. Il croco simile a fiamma spuntava dall’erba per guardarla. Per lei il narciso leggero accumulava la pioggia fresca; e per lei gli anemoni dimenticavano i venti siciliani che li corteggiavano. E né il croco, né l’anemone, né il narciso erano belli come lei.

È una cosa strana, questo trasferimento di emozione. Soffriamo delle stesse malattie come i poeti, e il cantore ci presta il suo dolore. Labbra morte hanno il loro messaggio per noi, e cuori divenuti polvere possono comunicare la loro gioia. Corriamo a baciare la bocca insanguinata di Fantine, e seguiamo Manon Lescaut per tutto il mondo. Nostra è la pazzia d’amore del Tiro, e nostro pure il terrore di Oreste. Non v’è passione che non possiamo provare, non v’è piacere che non ci gratifichi, e noi possiamo scegliere il tempo della nostra iniziazione e anche il tempo della nostra libertà. Vita! Vita! Non andiamo dalla vita per la nostra realizzazione o per la nostra esperienza. È una cosa limitata alle circostanze, incoerente nella sua espressione, e senza quella bella corrispondenza di forma e spirito che è la sola cosa che può soddisfare il temperamento artistico e critico. Ci fa pagare un prezzo troppo alto per le sue mercanzie, e noi acquistiamo il più basso dei suoi segreti ad un prezzo che è mostruoso e infinito.



[1] Tr. Che m’importa che tu sia saggia?/ Sii bella e sii triste., Charles Baudelaire, Madrigal triste.



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