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Oscar Wilde – Il ritratto di Dorian Gray 13

Creato il 07 settembre 2012 da Marvigar4

wilde vignolo 2

Capitolo XIII

   Uscì dalla stanza e cominciò a salire, Basil Hallward lo seguiva da presso. Camminavano piano, come si fa istintivamente di notte. La lampada gettava ombre fantastiche sul muro e sulla scala. Un vento appena levato faceva sbattere qualche finestra.
   Quando raggiunsero l’ultimo piano, Dorian posò la lampada sul pavimento e, estratta la chiave, la girò nella serratura. «Insisti a voler sapere, Basil?» chiese a bassa voce.
   «Sì.»
   «Ne sono lieto» rispose, sorridendo. Poi aggiunse piuttosto duramente, «Tu sei l’unico uomo al mondo qualificato a sapere tutto su di me. Hai avuto a che fare con la mia vita più di quanto pensi» e, presa la lampada, aprì la porta ed entrò. Una corrente d’aria fredda li investì, e la luce per un attimo si contorse in una fiamma di color arancio torbido. Rabbrividì. «Chiudi la porta dietro di te» sussurrò, posando la lampada sul tavolo.
   Hallward si guardò intorno con aria perplessa. La stanza dava l’idea d’essere disabitata da anni. Un arazzo fiammingo sbiadito, un quadro coperto da una tenda, un vecchio cassone italiano e uno scaffale quasi vuoto – era tutto quanto sembrava contenere, oltre a una sedia e a un tavolo. Mentre Dorian Gray accendeva un mozzicone di candela che stava sulla mensola del camino, il pittore vide che l’intero ambiente era coperto di polvere e il tappeto era pieno di buchi. Un topo corse a intrufolarsi dietro il rivestimento di legno. C’era un odore umido di muffa. «Così tu pensi che solo Dio vede l’anima, Basil? Scosta quella tenda e vedrai la mia.»
   La voce che parlava era fredda e crudele. «Tu sei pazzo, Dorian, oppure stai recitando» borbottò Hallward accigliandosi.
   «Non vuoi. Allora lo devo fare io» disse il giovane, e strappò la tenda dalla sbarra e la gettò per terra.
   Un’esclamazione di orrore sbottò dalle labbra del pittore quando vide nella luce fioca il volto spaventoso sulla tela che gli sorrideva con un ghigno. C’era qualcosa nella sua espressione che lo riempiva di disgusto e ribrezzo. Santo cielo! Era proprio il viso di Dorian Gray che stava guardando! L’orrore, comunque, non aveva ancora devastato del tutto quella meravigliosa bellezza. C’era ancora dell’oro nei capelli radi e dello scarlatto sulla bocca sensuale. Gli occhi acquosi avevano mantenuto un po’ del loro azzurro avvenente, le nobili curve non erano ancora completamente svanite dalle narici cesellate e dalla gola scultorea. Sì, era Dorian in persona. Ma chi lo aveva fatto ? gli parve di riconoscere il tratto del suo pennello, e la cornice era disegnata da lui. L’idea era assurda, eppure ebbe paura. Afferrò la candela accesa e la avvicinò al ritratto. Nell’angolo sinistro della tela c’era il suo nome, tracciato in lunghe lettere di un vermiglio brillante.
   Era una sporca parodia, un’infame ignobile satira. Lui non l’aveva mai fatta. Eppure, era il suo quadro. Lo riconobbe ed ebbe come la sensazione che il suo sangue in un attimo si fosse mutato da fuoco a ghiaccio inerte. Il suo quadro! Cosa voleva dire questo? Perché si era alterato? Si voltò e guardò Dorian Gray con gli occhi di un malato. La bocca gli si contraeva e la sua lingua secca sembrò incapace di articolare una parola. Si passò la mano sulla fronte. Era madida di sudore appiccicaticcio.
   Il giovane stava stava appoggiato alla mensola del camino, lo osservava con quella strana espressione che si vede sul volto di chi è assorto in un dramma quando un grande attore sta recitando. Non c’era dolore in quel volto, né vera gioia. C’era semplicemente la passione dello spettatore e, forse, il barlume del trionfo nello sguardo. Si era tolto il fiore dall’occhiello e lo odorava, o faceva finta di farlo.
   «Che significa questo?» gridò alla fine Hallward. La sua voce risuonò stridula e insolita all’orecchio.
   «Anni fa, quando ero un ragazzo,» disse Dorian Gray, accartocciando il fiore che aveva in mano, «mi incontrasti, mi adulasti, e mi insegnasti ad essere vanitoso della mia bellezza. Un giorno mi presentasti a un tuo amico, che mi spiegò la meraviglia della giovinezza. In un momento di follia, di cui pure adesso non so se pentirmi o meno, espressi un desiderio, forse tu lo chiameresti una preghiera…» «Lo ricordo! Oh, lo ricordo bene! No! È impossibile. La stanza è umida. La muffa ha rovinato la tela. I colori che ho usato contenevano qualche maledetto veleno minerale. Ti dico che è impossibile.»
   «Ah, cosa è impossibile?» mormorò il giovane, andando alla finestra e appoggiando la fronte contro il vetro freddo e appannato dalla nebbia.
   «Mi dicesti che l’avevi distrutto.»
   «Mi sbagliavo. È lui che ha distrutto me.»
   «Non credo sia il mio quadro.»
   «Non ci vedi il tuo ideale?» disse amaramente Dorian.
   «Il mio ideale, come lo chiami tu…»
   «Come lo chiamavi tu.»
   «Non c’era niente di male, niente di cui vergognarsi. Tu eri per me un ideale che non incontrerò mai più. Questa è la faccia di un satiro.»
   «È la faccia della mia anima.»
   «Cristo! Che cosa ho adorato! Ha gli occhi di un diavolo.»
   «Ognuno di noi ha dentro di sé paradiso e inferno, Basil» urlò Dorian con un gesto inconsulto di disperazione.
   Hallward si voltò ancora verso il ritratto e lo scrutò. «Mio Dio! Se è vero,» esclamò, «e questo è quello che hai fatto della tua vita, allora devi essere peggiore persino di quello che immagina chi parla contro di te!» Avvicinò di nuovo la lampada alla tela e la esaminò. La superficie sembrava essere del tutto inalterata rispetto a come l’aveva lasciata. Era da dentro, apparentemente, che provenivano la follia e l’orrore. Per uno strano movimento di vita interiore la lebbra del peccato stava mangiando lentamente il quadro. La putrefazione di un cadavere in una fossa umida non era altrettanto spaventosa.
   La mano gli tremò e la candela cadde dal candeliere e rimase lì crepitando. Ci mise il piede sopra e la spense. Poi si gettò sulla sedia traballante che stava vicino al tavolo e si nascose il volto fra le mani.
   «Buon Dio, Dorian, che lezione! Che lezione terribile!» Non ci fu risposta, ma poté sentire il giovane che singhiozzava alla finestra. «Prega, Dorian, prega» mormorò. «Cosa ci insegnano a dire quando siamo bambini? “Non indurci in tentazione. Perdona i nostri peccati. Lava le nostre iniquità.” Diciamolo insieme. La preghiera del tuo orgoglio è stata esaudita. Verrà esaudita anche la preghiera del tuo pentimento. Io ti ho adorato troppo. Sono stato punito per questo. Tu hai adorato troppo te stesso. Siamo stati puniti tutti e due.»
   Dorian Gray si voltò lentamente e lo guardò con gli occhi velati di lacrime.
   «È troppo tardi, Basil» borbottò.
   «Non è mai troppo tardi, Dorian. Inginocchiamoci e proviamo a ricordare una preghiera. Non c’è un versetto che dice: “Se i vostri peccati sono come scarlatto, diventeranno bianchi come la neve” [44]?»
   «Queste parole non significano più niente per me adesso.»
   «Zitto! Non parlare così. Hai già fatto abbastanza male nella tua vita. Mio Dio! Non vedi che quella cosa maledetta ci guarda di sbieco?»
   Dorian Gray dette un’occhiata al ritratto, e all’improvviso lo invase un sentimento di odio incontrollabile per Basil Hallward, come se gli fosse stato suggerito dall’immagine sulla tela, bisbigliato all’orecchio da quelle labbra ghignanti. La furia selvaggia di un animale braccato salì dentro di lui, e detestò l’uomo che stava seduto al tavolo, più di quanto avesse mai detestato qualcuno in tutta la sua vita. Si guardò intorno come un selvaggio. Qualcosa luccicava sopra il cassone dipinto di fronte a lui. Lo sguardo vi cadde sopra. Sapeva cos’era. Era un coltello che aveva portato su, qualche giorno prima, per tagliare un pezzo di corda, e che aveva dimenticato di riportare giù. Si mosse lentamente verso il coltello, passando accanto a Hallward. Appena gli fu dietro, lo afferrò e si girò.
   Hallward si mosse dalla sedia come se stesse per alzarsi. Dorian gli fu addosso e affondò il coltello nella grossa vena che sta dietro l’orecchio, sbattendogli la testa sul tavolo e colpendolo ripetutamente.
   Ci fu un gemito soffocato e l’orribile suono di chi soffoca nel sangue. Tre volte le braccia protese si levarono convulse, agitando in aria mani grottesche dalle dita irrigidite. Lo pugnalò ancora due volte, ma l’uomo non si mosse. Qualcosa cominciava a gocciolare sul pavimento. Attese un istante, premendogli ancora la testa giù. Poi gettò il coltello sul tavolo e si mise in ascolto.
   Non riusciva a sentire nulla, solo il gocciolio sul tappeto liso. Aprì la porta e uscì sul pianerottolo. La casa era assolutamente in silenzio. Non c’era nessuno. Per pochi secondi rimase piegato sulla balaustra e scrutando giù nel pozzo nero carico di tensione dell’oscurità. Poi prese la chiave e ritornò nella stanza, chiudendovisi dentro. la cosa era ancora seduta sulla sedia, con il capo chino, il dorso curvo e le lunghe braccia irreali. Se non fosse stato per la rossa ferita lacera sul collo e la chiazza nera raggrumata che si stava lentamente allargando sul tavolo, si sarebbe detto che l’uomo stesse semplicemente dormendo.
   Com’era avvenuto tutto rapidamente! Si sentiva stranamente calmo, e andò ad aprire la finestra, uscendo poi sul balcone. Il vento aveva spazzato via la nebbia e il cielo sembrava una coda mostruosa di pavone, costellata di miriadi di occhi d’oro. Guardò giù e vide il poliziotto che faceva la sua ronda proiettando il lungo raggio della sua lanterna sulle porte delle case silenziose. La macchia cremisi di una carrozza che si aggirava luccicò all’angolo e poi svanì. Una donna con uno scialle svolazzante avanzava lentamente lungo le inferriate, vacillando. Ogni tanto si fermava per guardarsi dietro. A un certo punto cominciò a cantare con voce rauca. Il poliziotto la raggiunse con calma e le disse qualcosa. La donna si allontanò
incespicando e ridendo. Una raffica di vento pungente spazzò la piazza. Le luci dei lampioni a gas tremolarono e divennero azzurre, e gli alberi spogli agitarono su e giù i rami neri come il ferro. Dorian rabbrividì e tornò dentro, chiudendosi la finestra dietro.
   Raggiunta la porta, girò la chiave e l’aprì. Non dette nemmeno un’occhiata all’uomo assassinato. Sentiva che il segreto dell’intera faccenda stava nel non rendersi conto della situazione. L’amico che aveva dipinto il fatale ritratto, che era stato causa di tutte le sue disgrazie, era uscito dalla sua vita. Questo era sufficiente.
   Poi ricordò la lampada. Era un oggetto piuttosto curioso di fattura moresca, di argento grigio intarsiato con arabeschi d’acciaio brunito, e tempestato di turchesi grezzi. Forse il domestico si sarebbe accorto della sua assenza e avrebbe fatto delle domande. Esitò per un po’, poi tornò indietro e la prese dal tavolo. Non poté fare a meno di vedere quella cosa morta. Com’era immobile! Come apparivano orribilmente bianche le lunghe mani! Somigliava a una spaventosa immagine di cera.
   Chiusa la porta dietro di sé, scese piano piano le scale. I gradini di legno scricchiolavano e sembravano gemere dal dolore. Si fermò più volte e attese. No: tutto era calmo. Era soltanto il rumore dei suoi passi.
   Quando raggiunse la biblioteca, vide la valigia e il cappotto in un angolo. Doveva nasconderli da qualche parte. Aprì un armadio segreto incassato nei pannelli di legno dove teneva i suoi strani travestimenti, e li mise lì. Avrebbe potuto bruciarli facilmente in seguito. Poi tirò fuori l’orologio. Mancavano venti minuti alle due.
   Si mise a sedere e iniziò a pensare. Ogni anno – quasi ogni mese – in Inghilterra venivano impiccati degli uomini per quello che lui aveva fatto. C’era stata una follia omicida nell’aria. Una stella rossa si era avvicinata troppo alla terra… Eppure, che prove c’erano contro di lui? Basil Hallward aveva lasciato la casa alle undici. Nessuno l’aveva visto tornarci. La maggior parte della servitù era a Selby Royal. Il suo domestico era andato a letto… Parigi! Sì. Era a Parigi che Basil era andato, e con il treno di mezzanotte, com’era sua intenzione. Viste le sue abitudini stranamente riservate, sarebbero passati dei mesi prima che nascessero dei sospetti.
   Mesi! Tutto poteva essere distrutto molto prima.
   Un pensiero improvvisò lo colse. Indossò la pelliccia e il cappello e uscì nell’ingresso. Si fermò lì, ascoltando il passo lento e pedante del poliziotto sul marciapiede e vedendo il fascio di luce dell’occhio di bue riflesso nella finestra. Attese trattenendo il respiro.
   Dopo pochi istanti tirò il catenaccio e scivolò fuori, chiudendo molto dolcemente la porta dietro di sé. Poi cominciò a suonare il campanello.
Dopo circa cinque minuti il maggiordomo apparve, mezzo svestito e con
l’aria assonnata.
   «Mi dispiace di averti svegliato, Francis,» disse entrando, «ma ho dimenticato la chiave. Che ore sono?»
   «Le due e dieci, signore» rispose l’uomo guardando l’orologio e sbattendo le palpebre.
   «Le due e dieci? Com’è tardi! Dovrai svegliarmi alle nove domattina. Ho delle cose da fare.»
   «Va bene, signore.»
   «Mi ha cercato qualcuno stasera?»
   «Mr. Hallward, signore. Si è trattenuto qui fino alle undici e poi e andato via a prendere il treno.»
   «Oh! Mi spiace non averlo visto. Ha lasciato un messaggio?»
   «No, signore, eccetto che le avrebbe scritto da Parigi se non l’avesse trovata al club.»
   «Bene, Francis. Non dimenticare di chiamarmi alle nove domattina.»
   «No, signore.»
   Il domestico si allontanò per il corridoio strascicando le pantofole.
   Dorian Gray gettò cappello e pelliccia sul tavolo e passò in biblioteca. Per un quarto d’ora camminò su e giù per la stanza, mordendosi le labbra e pensando. Poi prese il Blue Book da uno degli scaffali e cominciò a sfogliare le pagine. “Alan Campbell, 152, Hertford Street, Mayfair.” Sì, era lui l’uomo che ci voleva.

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[44] Isaia, I,18.


 



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