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Oscar Wilde – Il ritratto di Dorian Gray 16

Creato il 10 settembre 2012 da Marvigar4

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Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray
Traduzione dall’originale inglese The Picture of Dorian Gray
di Marco Vignolo Gargini

Capitolo XVI

   Cominciò a cadere una pioggia fredda, e i lampioni appannati nella fradicia nebbia avevano un aspetto spettrale. I locali stavano chiudendo e figure indistinte di uomini e donne si raggruppavano in gruppi sparsi intorno alle porte. Da alcuni bar giungeva il suono di orribili risate. In altri gli ubriachi si azzuffavano e gridavano.
   Appoggiato allo schienale della carrozza, con il cappello calcato sulla fronte, Dorian Gray guardava con occhi apatici la sordida vergogna della grande città, e ogni tanto ripeteva a se stesso le parole che Lord Henry gli aveva detto il primo giorno che si incontrarono, «Curare l’anima con i sensi, e i sensi con l’anima.» Sì, quello era il segreto. Ci aveva provato spesso, e l’avrebbe provato ancora. C’erano fumerie d’oppio dove si poteva comprare l’oblio, covi di orrore dove la memoria dei vecchi peccati poteva essere distrutta dalla follia dei peccati nuovi.
   La luna pendeva bassa nel cielo come un cranio giallo. Di quando in quando un’enorme nube informe allungava un lungo braccio e la nascondeva. I lampioni a gas si facevano più radi, e le strade più strette e cupe. Una volta il vetturino smarrì la strada e dovette tornare indietro di mezzo miglio. Vapori di sudore salivano dal cavallo mentre schizzava nelle pozzanghere. I finestrini laterali della carrozza erano appannati da una nebbia grigiastra.
   «Curare l’anima con i sensi, e i sensi con l’anima!» come gli risuonavano nelle orecchie queste parole! La sua anima, certamente, era mortalmente malata. Era vero che i sensi avrebbero potuto curarla? Sangue innocente era stato versato. Cosa poteva espiare per questo? Ah! Non c’era espiazione per questo; ma benché il perdono fosse impossibile, l’oblio era ancora possibile e lui era deciso a dimenticare, a scacciare tutto, a schiacciarlo come si schiaccerebbe la vipera che ci ha morso. Infatti, che diritto aveva Basil di parlargli come aveva fatto? Chi lo aveva eletto a giudice sugli altri? Aveva detto cose tremende, orribili, insopportabili.
   La carrozza continuava ad arrancare, gli sembrava che rallentasse ad ogni passo. Alzò lo sportello e urlò al conducente di andare più veloce.
   L’orrenda fame di oppio cominciò a roderlo. La sua gola bruciava e le mani delicate si torcevano nervosamente. Colpì il cavallo furiosamente con il bastone. Il vetturino rise e schioccò la frusta. Anche Dorian rise, in risposta, e l’uomo tacque.
   Il viaggio sembrava interminabile, e le strade erano come la tela di un
ragno che allungava le zampe. La monotonia diventò intollerabile, e quando la nebbia si fece più fitta, provò paura.
   Poi passarono vicino a fabbriche di mattoni solitarie. Qui la foschia era meno densa, e poteva vedere le strane fornaci a forma di bottiglia con le loro lingue arancione di fuoco simili a ventagli. Un cane abbaiò al loro passaggio, e lontano nel buio strideva un gabbiano errante. Il cavallo inciampò in una buca, poi scartò di lato e si lanciò al galoppo.
   Dopo un po’ lasciarono la strada fangosa e tornarono rumorosamente su strade mal lastricate. La maggior parte delle finestre erano buie, ma a tratti ombre fantastiche si stagliavano su qualche tendina illuminata. Le osservava con curiosità. Si muovevano come mostruose marionette e gesticolavano come creature viventi. Le odiava. Una rabbia sorda montò nel suo cuore. Appena girarono un angolo, una donna urlò qualcosa rivolta a loro da una porta aperta, e due uomini rincorsero la carrozza per circa cento iarde. Il vetturino li colpiva con la frusta.
   Si dice che la passione ci fa pensare in modo circolare. Di certo la labbra morse di Dorian Gray forgiavano e riforgiavano con odiosa ripetizione quelle parole sottili sull’anima e i sensi, finché non ebbe trovato in esse la piena espressione, per così dire, del suo stato d’animo, e giustificato, con il consenso dell’intelletto, passioni che senza tale giustificazione avrebbero dominato ancora il suo spirito. Da una cellula all’altra del suo cervello quell’unico pensiero si aggirava furtivo; e il desiderio folle di vivere, il più terribile di tutti gli appetiti umani, diede forza a ogni nervo e fibra tremante. La bruttezza, che un tempo gli era stata odiosa perché rendeva reali le cose, gli fu cara adesso per quella stessa ragione. La bruttezza era l’unica realtà. La rissa volgare, la tana immonda, la cruda violenza della vita disordinata, la stessa abiezione del ladro e dell’emarginato, erano più vivide, nella loro intensa attualità dell’impressione, di tutte le forme graziose dell’arte, di tutte le ombre sognanti del Canto. Erano quello di cui aveva bisogno per dimenticare. In tre giorni sarebbe stato libero.
   All’improvviso il vetturino si arrestò con uno strattone all’imbocco di un vicolo buio. Oltre i tetti bassi e i camini diseguali delle case si ergevano i neri alberi delle navi. Corone di nebbia bianca pendevano come vele spettrali ai pennoni.
   «È da queste parti, vero, signore?» chiese con voce rauca attraverso il portello.
   Dorian sussultò e si guardò intorno. «Sì, va bene qui» rispose e, sceso in fretta, diede al vetturino la cifra extra che gli aveva promesso, e camminò veloce in direzione della banchina. Qua e là una lanterna brillava a poppa di qualche grosso mercantile. La luce tremava e si spezzava nelle pozzanghere. Un bagliore rosso proveniva da un piroscafo in partenza che faceva carbone. Il selciato sdrucciolevole sembrava un impermeabile bagnato.
   Si affrettò girando a sinistra, guardandosi di tanto in tanto indietro per vedere se era inseguito. Dopo circa sette o otto minuti raggiunse una squallida casetta incuneata tra due fabbriche desolate. A una finestra del piano superiore la luce era accesa. Dorian si fermò e bussò in un certo modo. Dopo un po’ udì dei passi nel corridoio e la catena che veniva tolta.
   La porta si aprì senza far rumore, e andò dentro senza dire una parola alla figura tozza e informe che si appiattì nell’ombra al suo passaggio. Alla fine dell’ingresso pendeva una tenda verde malridotta che ondeggiò e si scosse alla folata di vento che lo aveva seguito dalla strada. La scostò ed entrò in una stanza lunga e bassa che aveva l’aria d’esser stata un tempo una sala da ballo di terz’ordine. Disposte intorno alle pareti c’erano delle lampade a gas dalla luce abbagliante, attutita e distorta negli specchi rovinati che gli stavano di fronte. Dietro di loro c’erano dei bisunti riflettori di stagno scanalato che proiettavano dischi tremolanti di luce. Il pavimento era coperto di segatura color ocra, calpestata qua e là fino a diventare fanghiglia e chiazzata da cerchi scuri di liquore versato. Alcuni malesi erano accovacciati vicino a una stufetta a carbone, giocando con gettoni d’osso e mostrando i denti bianchi mentre chiacchieravano. In un angolo, un marinaio era stravaccato su un tavolo con la testa nascosta dalle braccia, e accanto al bancone dipinto in modo pacchiano che correva lungo tutto un lato stavano in piedi due donne malridotte, che prendevano in giro un vecchio che si spazzolava le maniche della giacca con un’espressione di disgusto. «Crede di avere addosso le formiche rosse» disse ridendo una di loro mentre Dorian passava. L’uomo la guardò con terrore e cominciò a mugolare.
   Alla fine della stanza c’era una scaletta che portava a una camera buia. Mentre Dorian saliva di corsa i tre scalini traballanti, l’odore pesante dell’oppio lo investì. Aspirò profondamente e le narici palpitarono di piacere. Quando entrò, un giovane dai capelli biondi e lisci, che era curvo su di una lampada accendendo una pipa lunga e sottile, alzò gli occhi e accennò un timido saluto col capo.
   «Tu qui, Adrian?» bisbigliò Dorian.
   «E dove dovrei essere?» rispose in modo indifferente. «Nessuno dei ragazzi mi rivolge più la parola.»
   «Credevo che avessi lasciato l’Inghilterra.»
   «Darlington non intende far niente. Mio fratello alla fine ha pagato il conto. Nemmeno George mi parla più… Non m’importa» aggiunse con un sospiro.
   «Finché hai questa roba, non senti bisogno di amici. Forse ne ho avuti troppi.»
   Dorian fece una smorfia e guardò gli esseri grotteschi che stavano sdraiati in posizioni così fantastiche sui materassi laceri. Gli arti contorti, le bocche spalancate, gli occhi fissi senza luce, lo affascinavano. Sapeva in quali strani paradisi soffrivano e quali grigi inferni insegnavano loro il segreto di una nuova gioia. Stavano meglio di lui. Lui era imprigionato nel pensiero. La memoria, come un’orribile malattia, gli divorava l’anima. Ogni tanto gli sembrava di vedere gli occhi di Basil Hallward che lo guardavano. Eppure sentiva di non poter rimanere. La presenza di Adrian Singleton lo turbava. Voleva trovarsi dove nessuno sapeva chi fosse. Voleva fuggire da se stesso.
   «Me ne vado nell’altro posto» disse dopo una pausa.
   «Sulla banchina?»
   «Sì.»
   «La gatta matta di sicuro è lì. Ormai non la vogliono più in questo posto.»
   Dorian scrollò le spalle. «Ho la nausea delle donne che si innamorano. Le donne che odiano sono molto più interessanti. Inoltre, la roba è migliore.»
   «Più o meno è la stessa.»
   «La preferisco. Viene a bere qualcosa. Ne ho bisogno.»
   «Non voglio niente.», mormorò il giovane.
   «È lo stesso.»
   Adrian Singleton si alzò stancamente e seguì Dorian al bancone. Un meticcio, con un turbante stracciato e un pastrano trasandato, li salutò con un ghigno spingendo davanti a loro una bottiglia di brandy e due bicchieri. Le donne si avvicinarono e cominciarono a chiacchierare. Dorian voltò loro le spalle e disse qualcosa a voce bassa a Adrian Singleton.
   Un sorriso storto, come un kris malese, contrasse il viso di una delle donne. «Siamo molto orgogliosi stasera» ridacchiò
   «Per amor di Dio, non parlarmi» gridò Dorian, battendo il piede in terra.
   «Cosa vuoi? Soldi? Eccoli. Non parlarmi più.»
   Due scintille rosse guizzarono per un istante negli occhi acquosi della donna, poi smisero di guizzare e li lasciarono smorti e assenti. Scosse la testa e arraffò le monete dal banco con dita avide. La sua compagna la guardò con invidia.
   «È inutile» sospirò Adrian Singleton. «Non m’interessa tornare indietro. Che importa? Qui sto più che bene.»
   «Mi scriverai se vuoi qualcosa, no?» disse Dorian dopo una pausa.
   «Forse.»
   «Buona notte, allora.»
   «Buona notte» rispose il giovane salendo gli scalini e inumidendosi le labbra arse con un fazzoletto.
   Dorian si avviò alla porta con un’espressione di dolore sul viso. Mentre scostava la tenda, una risata orribile uscì dalla bocca dipinta della donna che aveva preso i soldi. «Ecco che se ne va il Patto col Diavolo!» singhiozzò con voce rauca.
   «Maledetta» rispose, «non chiamarmi così»
   La donna schioccò le dita. «Ti piace essere chiamato Principe Azzurro, no?» gli urlò dietro.
   Il marinaio intontito dal sonno a quelle parole saltò in piedi, e si guardò furiosamente intorno. Il rumore della porta dell’ingresso che si chiudeva gli arrivò all’orecchio. Si precipitò fuori come per inseguire qualcuno.
   Dorian Gray camminava alla svelta lungo la banchina nella pioggerellina fitta. L‘incontro con Adrian Singleton lo aveva stranamente commosso, e si chiedeva se la rovina di quella giovane vita fosse davvero causa sua, come Basil Hallward gli aveva detto con quell’insulto infame. Si morse il labbro, e per pochi secondi i suoi occhi si fecero tristi. Eppure, dopo tutto, cosa gli importava? I giorni sono troppo brevi per prendere sulle nostre spalle il fardello degli errori degli altri. Ogni uomo vive la propria vita e paga il suo prezzo per viverla.
   L’unico peccato era che si dovesse pagare così spesso per una sola colpa. Anzi, si doveva pagarla più e più volte. Nei suoi rapporti con gli uomini, il destino non chiudeva mai i conti.
   Ci sono momenti, ci dicono gli psicologi, in cui la passione per il peccato, o per ciò che il mondo chiama peccato, domina a tal punto una natura che ogni fibra del corpo, come ogni cellula del cervello, sembra essere imbevuta di impulsi paurosi. Gli uomini e le donne in quei momenti perdono la libertà del loro volere. Si muovono verso la loro terribile fine come automi. La scelta viene loro tolta, e la coscienza o è uccisa, o, se vive, vive solo per dare attrazione alla ribellione e fascino alla disobbedienza. Perché tutti i peccati, come i teologi non si stancano di ripeterci, sono peccati di disobbedienza. Quando quello spirito elevato, quella stella mattutina del male, cadde dal Paradiso, cadde da ribelle.
   Insensibile, concentrato sul male, con la mente corrotta e l’anima assetata di ribellione, Dorian Gray si affrettava, accelerando il suo passo sempre più, ma svoltando sotto un’arcata buia, che spesso gli era servita da scorciatoia per il luogo malfamato dove stava andando, si sentì all’improvviso afferrare da dietro, e prima di aver tempo di difendersi, fu
spinto contro il muro con una mano brutale alla gola.
   Lottò furiosamente per la vita e con uno sforzo terribile staccò le dita che lo stringevano. In un attimo udì il clic di un revolver, e vide il luccichio di una canna puntata dritta alla sua testa, e la figura vaga di un uomo basso e tarchiato di fronte a lui.
   «Cosa vuoi?» sussultò.
   «Fermo» disse l’uomo. «Se ti muovi, ti sparo.»
   «Sei pazzo. Che ti ho fatto?»
   «Hai distrutto la vita di Sibyl Vane» fu la risposta, «e Sibyl Vane era mia sorella. Si è uccisa. Lo so. La sua morte è colpa tua. Giurai che in cambio ti avrei ucciso. Per anni ti ho cercato. Non avevo indizi, né tracce. Le due persone che avrebbero potuto descriverti sono morte. Non sapevo nulla di te tranne il vezzeggiativo con cui ti chiamava. L’ho sentito per caso stanotte. Fa’ pace con Dio, perché stanotte tu morirai.»
   Dorian Gray si sentì mancare dalla paura. «non l’ho mai conosciuta» balbettò. «Non ne ho mai sentito parlare. Tu sei pazzo.»
   «È bene che tu confessi il tuo peccato, perché quanto è vero che sono Janes Vane, tu morirai.» fu un momento terribile. Dorian non sapeva che dire o fare. «Inginocchiati!» grugnì l’uomo. «Ti do un minuto per far pace col mondo – non di più. È tutto.»
   Le braccia di Dorian ricaddero sui fianchi. Paralizzato dal terrore, non sapeva che fare. D’un tratto una speranza folle gli balenò nella mente.
   «Fermo!» gridò. «Da quanto tempo è morta tua sorella? Su, dimmelo!»
   «Diciotto anni» disse l’uomo. «Perché me lo chiedi? Cosa importano gli anni?»
   «Diciotto anni» rise Dorian Gray con una punta di trionfo nella sua voce.
   «Diciotto anni! Portami sotto il lampione e guardami in faccia!»
   James Vane esitò per un momento, non capendo cosa intendesse dire. Poi afferrò Dorian Gray e lo trascinò fuori dall’arcata.
   Per quanto buia e tremolante fosse la luce scossa dal vento, eppure gli servì per fargli vedere l’errore orrendo, come sembrava, in cui era caduto, perché il volto dell’uomo che aveva cercato di uccidere era nel pieno fiore dell’adolescenza, nell’immacolata purezza della gioventù. Sembrava poco più di un ragazzo di venti anni, appena più vecchio, se pure lo era, di quello che era sua sorella quando si separarono tanti anni addietro. Era ovvio che quello non era l’uomo che le aveva distrutto la vita.
   Allentò la presa e arretrò. «Mio Dio! Mio dio!» urlò, «e io ti avrei ucciso!»
   Dorian Gray tirò un lungo respiro. «Sei stato a un passo dal commettere un delitto terribile, amico mio» disse, guardandolo severamente. «Che ti serva da ammonimento a non farti vendetta da solo.»
   «Mi perdoni, signore» farfugliò James Vane. «Mi ero ingannato. Una parola udita per caso in quel dannato covo mi ha messo sulla pista sbagliata.»
   «Faresti meglio a tornare a casa e metter via quella pistola, o potresti trovarti nei guai» disse Dorian girandosi e allontanandosi lentamente per la via.
   James Vane restò sul marciapiede atterrito dall’orrore. Tremava da capo a piedi. Dopo un po’, un’ombra nera che si era mossa strisciando lungo il muro gocciolante uscì alla luce e gli venne vicino con passi furtivi. Sentì una mano sul braccio e si guardò intorno sussultando. Era una delle donne che beveva al bancone.
   «Perché non l’hai ucciso?» sibilò, accostando il viso sciupato al suo.   «Sapevo che lo stavi inseguendo quando sei uscito di volata dal Daly. Pazzo! Avresti dovuto ucciderlo. È pieno di soldi, ed è il peggio del peggio.»
   «Non è l’uomo che cercavo,» rispose, «e non voglio i soldi di nessuno. Voglio la vita di un uomo. Ora deve avere circa quarant’anni. Questo è poco più di un ragazzo. Grazie a Dio, non mi sono macchiato le mani del suo sangue.»
   La donna rise amaramente. «Poco più di un ragazzo!» sogghignò. «Amico, sono quasi diciotto anni che il Principe Azzurro mi ha ridotta come sono.»
   «Bugiarda!» gridò James Vane.
   La donna alzò la mano al cielo. «Davanti a Dio, ti sto dicendo la verità» urlò.
   «Davanti a Dio?»
«Che diventi muta se non è così. È il peggiore di quelli che vengono qui. Dicono che si è venduto al diavolo per un bel viso. Sono quasi diciotto anni che lo conosco. Non è cambiato molto da allora. Io sì, invece» aggiunse con uno sguardo orrendo.
   «Lo giuri?»
   «Lo giuro» fece l’eco rauca di quella bocca flaccida. «Ma non consegnarmi a lui,» piagnucolò; «ho paura di lui. Dammi qualche soldo per la camera di stanotte.»
   Si staccò da lei bestemmiando e corse all’angolo della strada, Dorian Gray era sparito. Quando guardò indietro, anche la donna era svanita.



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