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Oscar Wilde – L’anima dell’Uomo sotto il Socialismo VII

Creato il 21 luglio 2014 da Marvigar4

L'Anima dell'Uomo sotto il socialismo

OSCAR WILDE

L’ANIMA DELL’UOMO SOTTO IL SOCIALISMO

Titolo originale: The Soul of Man under Socialism

Traduzione dall’originale in inglese di Marco Vignolo Gargini

Fino ad oggi l’uomo è stato, in una certa misura, lo schiavo delle macchine, e c’è qualcosa di tragico nel fatto che non appena ebbe inventato una macchina che facesse il suo lavoro l’uomo cominciò a morire di fame. Questo è tuttavia il risultato, naturalmente, del nostro sistema basato sulla proprietà e la concorrenza. Un uomo possiede una macchina che svolge il lavoro di cinquecento uomini. Cinquecento uomini, di conseguenza, perdono l’impiego, e non avendo lavoro da svolgere patiscono la fame e si danno al furto. Un solo uomo si assicura il prodotto della macchina e se lo tiene, e ha cinquecento volte di più di quanto dovrebbe, e probabilmente, cosa questa molto più importante, anche molto di più di quanto davvero vuole. Se quella macchina fosse proprietà di tutti, ciascuno ne trarrebbe beneficio. Sarebbe un immenso vantaggio per la comunità. Tutto il lavoro non intellettuale, tutto il lavoro monotono e noioso, tutto il lavoro che si occupa di cose orribili e implica condizioni spiacevoli deve essere fatto dalle macchine. Le macchine devono lavorare per noi nelle miniere di carbone, fare tutti i servizi sanitari, fare i fuochisti nei piroscafi, spazzare le strade, consegnare i messaggi nei giorni di pioggia e fare tutto ciò che sia noioso o desolante. Attualmente le macchine competono contro l’uomo. Nelle condizioni giuste saranno un servitore dell’uomo. Non c’è alcun dubbio che questo sia il futuro delle macchine, e come gli alberi crescono mentre il signorotto di campagna dorme, così, mentre l’umanità si diverte o gode di piaceri culturali – i quali, e non il lavoro manuale, sono il fine dell’uomo – o fa cose piacevoli o legge cose piacevoli, o semplicemente contempla il mondo con ammirazione e delizia, le macchine faranno ogni lavoro necessario e spiacevole. Il fatto è che la civilizzazione richiede degli schiavi. I greci avevano proprio ragione. Fino a che vi sono schiavi che fanno lavori brutti, orribili, per nulla interessanti, la cultura e la contemplazione diventano pressoché impossibili. La schiavitù umana è sbagliata, insicura e demoralizzante. Il futuro del mondo dipende dalla schiavitù meccanica, dalla schiavitù della macchina. E quando gli uomini di scienza non saranno più chiamati a recarsi in un deprimente East End per distribuire agli affamati un pessimo cacao e coperte anche peggiori, essi godranno di un piacevole ozio, durante il quale escogitare cose stupende e meravigliose per la propria gioia loro e per quella di tutti gli altri. Ci saranno grandi riserve di energia per ogni città, per ogni casa che le richieda, e questa energia l’uomo la convertirà in calore, luce o movimento, a seconda dei suoi bisogni. È utopistico? Una cartina del mondo che non contenga Utopia non è degna neppure di uno sguardo, perché lascia fuori l’unico paese sul quale l’umanità è sempre atterrata. E, quando vi attracca, l’umanità si guarda intorno, vede un paese migliore e issa nuovamente le vele. Il progresso è la realizzazione di Utopia.

Ora, ho detto che la comunità fornirà attraverso l’organizzazione delle macchine le cose utili, e che le cose belle saranno fatte dall’individuo. Ciò non solo è necessario, ma è il solo modo in cui possiamo assicurarci sia le une che le altre. Un individuo che debba fare cose per altri, con riferimento ai loro bisogni e ai loro desideri, non lavora con interesse e, di conseguenza, non può infondere nel suo lavoro il meglio di sé. D’altro canto ogniqualvolta una comunità o una potente parte di essa, o un governo di qualsiasi genere, cercano di

imporre all’artista ciò che deve fare, l’arte svanisce completamente o si fa stereotipa o degenera in una bassa e ignobile forma di artigianato. Un’opera d’arte è il risultato unico di un temperamento unico. La sua bellezza deriva dal fatto che l’autore è ciò che è. Non ha niente a che vedere col fatto che gli altri vogliono ciò che vogliono. Di fatto nel momento in cui un artista prende atto dei bisogni degli altri e tenta di ottemperare alle loro richieste, egli cessa di essere un artista e diventa noioso o divertente artigiano, un onesto o disonesto commerciante. Non ha più diritto di essere considerato un artista. L’Arte è l’espressione più intensa di Individualismo che il mondo abbia conosciuto. Sono propenso a dire che è l’unica vera espressione di Individualismo che il mondo abbia conosciuto. Il crimine, che, sotto certe condizioni, può sembrare aver creato l’Individualismo, deve prendere cognizione delle altre persone e interferire con esse. Appartiene alla sfera dell’azione. Ma soltanto l’artista può creare cose belle senza alcun riferimento a ciò che è a lui contiguo, senza alcuna interferenza; e se non crea unicamente per il suo proprio piacere non è per niente un artista. E c’è da notare che è proprio il fatto che l’Arte sia questa intensa forma di Individualismo a fare in modo che il pubblico cerchi di esercitare su di essa un’autorità, che è immorale quanto ridicola, e corruttrice quanto disprezzabile. Ma la colpa non è proprio del pubblico. In ogni tempo, il pubblico è sempre stato educato male. Esso ha chiesto di continuo all’Arte di essere popolare, di deliziare la sua pretesa di gusto, di blandire la sua assurda vanità, di raccontargli ciò che aveva già sentito dire prima, di mostrargli ciò che avrebbe dovuto essere stanco di vedere, di divertirlo quando si sentiva appesantito per aver mangiato troppo, e di distrarre il suo pensiero quando era stanco della propria stupidità. Ora, l’Arte non dovrebbe mai cercare d’essere popolare. Il pubblico dovrebbe cercare di diventare artistico. C’è una differenza molto grande. Se a un uomo di scienza fosse detto che i risultati dei suoi esperimenti e le conclusioni cui perviene debbono essere tali da non sconvolgere le cognizioni popolari sull’argomento, o disturbare i pregiudizi popolari, o urtare la sensibilità della gente che non sa niente di scienza; se a un filosofo fosse detto che ha perfettamente ragione a speculare nelle più alte sfere di pensiero, a condizione che arrivi alle stesse conclusioni sostenute da coloro che non hanno mai pensato in nessuna sfera… orbene, i nostri uomini di scienza e i nostri filosofi ne sarebbero notevolmente divertiti. Eppure sono passati davvero pochi anni da quando sia la filosofia che la scienza erano di fatto soggette a un controllo popolare brutale, all’autorità: l’autorità della generale ignoranza della comunità, oppure del terrore e della volontà di potenza di una classe ecclesiastica o governativa. Naturalmente ci siamo di gran lunga liberati di qualsiasi tentativo da parte della comunità o della chiesa o del governo di interferire con l’individualismo del pensiero speculativo, ma il tentativo di interferire con l’individualismo dell’arte immaginativa permane. In realtà, questo tentativo fa più che permanere: è aggressivo, offensivo e brutale.



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