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Oscar Wilde – La decadenza della menzogna 4

Creato il 02 dicembre 2012 da Marvigar4

la decadenza della menzogna

Oscar Wilde
La decadenza della menzogna
Un’osservazione

Titolo originale: The Decay of Lying – An observation
Traduzione di Marco Vignolo Gargini

Cyril : Ahem! Un’altra sigaretta, per favore.

Vivian : Mio caro amico, qualunque cosa tu dica, è puramente un’espressione drammatica, e niente rappresenta le reali vedute di Shakespeare sull’arte più di quanto le battute di Iago rappresentino le sue reali vedute sulla morale. Ma fammi andare alla fine del passo:

«  L’Arte trova la propria perfezione all’interno e non all’esterno di se stessa. Essa non deve essere giudicata attraverso un criterio esterno di somiglianza. Essa è un velo, più che uno specchio. Ha fiori che nessuna foresta conosce, uccelli che nessun bosco possiede. Fa e disfa molti mondi e può gettare la luna giù dal cielo con un filo scarlatto. Sue sono le “forme più reali dell’uomo vivente”, e suoi i grandi archetipi di cui le cose che hanno resistenza non sono altro che copie non rifinite. La Natura non ha, nei suoi occhi, né leggi, né uniformità. Può fare miracoli a suo piacimento e quando invoca i mostri dal profondo questi vengono. Può far fiorire il mandorlo in inverno e mandare la neve sul grano maturo. Alla sua parola il gelo mette il suo dito d’argento sulla bocca infuocata di giugno e i leoni alati strisciano fuori dalle cavità dei colli lidii. Le driadi fanno capolino dal boschetto quand’essa vi passa e i bruni fauni le sorridono stranamente quando si avvicinano a loro. Ha dèi dal viso di falco che la venerano e i centauri galoppano al suo fianco. »

Cyril : Mi piace questo. Mi sembra di vederlo. È la fine?

Vivian : No. C’è ancora un passaggio, ma è puramente pratico. Suggerisce semplicemente dei metodi con cui noi potremmo far rivivere quest’arte perduta della Menzogna.

Cyril : Beh, prima che tu me lo legga, mi piacerebbe porti una domanda. Che cosa vuoi dire affermando che la vita, “la povera, probabile, tanto poco interessante vita umana”, tenterà di riprodurre le meraviglie dell’arte? Io posso capire abbastanza la tua obiezione all’arte che viene trattata come uno specchio. Tu pensi che ridurrebbe il genio alla posizione di uno specchio rotto. Ma non intendi affermare che credi seriamente che la Vita imita l’Arte, che la Vita in definitiva è lo specchio e l’Arte la realtà?

Vivian : Certamente. Sebbene possa sembrare un paradosso – e i paradossi sono sempre cose pericolose – non è meno vero che la Vita imiti l’arte assai più di quanto l’Arte imiti la vita. Noi tutti abbiamo visto ai nostri giorni in Inghilterra come un certo tipo curioso e affascinante di bellezza, inventato e enfatizzato da due pittori immaginativi, abbia così influenzato la Vita che ogniqualvolta si vada a un’anteprima di una mostra o a un salon artistico si veda qui gli occhi mistici del sogno di Rossetti, la lunga gola eburnea, la strana mascella squadrata, gli sciolti capelli ombrosi che amò così ardentemente, là la dolce verginità della Scala d’oro, la bocca simile a fiore e la stanca avvenenza della Laus Amoris, il volto pallido per la passione di Andromeda, le mani fini e la bellezza agile della Vivian nel Sogno di Merlino. Ed è sempre così. Un grande artista inventa un tipo e la Vita tenta di copiarlo, di riprodurlo in una forma popolare, come un editore intraprendente. Né Holbein, né Van Dick trovarono in Inghilterra ciò che ci hanno dato. Essi portarono con sé i loro tipi, e la Vita con la sua viva facoltà imitativa si preparò a fornire il maestro dei modelli. I greci, con il loro rapido istinto artistico, capirono questo, e mettevano nella stanza della loro sposa la statua di Ermes o di Apollo, perché lei potesse generare figli altrettanto belli come le opere d’arte che contemplava nell’estasi o nel dolore. Loro sapevano che la Vita guadagna dall’arte non solo la spiritualità, la profondità di pensiero e di sentimento, lo sconvolgimento o la pace dell’anima, ma che essa può plasmare se stessa sulle linee e colori dell’arte e può riprodurre la dignità di un Fidia come la grazia di un Prassitele. Di qui venne la loro obiezione al realismo. Essi lo avversarono puramente per motivi sociali. Sentivano che esso inevitabilmente rende la gente brutta e avevano perfettamente ragione. Noi cerchiamo di migliorare le condizioni della razza con l’aria buona, con la luce del sole abbondante, con l’acqua pura e con orrendi nudi edifici per migliorare l’alloggio delle classi inferiori. Ma queste cose producono soltanto la salute, non la bellezza. Per questa è richiesta l’Arte, e i veri discepoli del grande artista non sono gli imitatori del suo studio, ma quelli che diventano come le sue opere d’arte, siano esse plastiche come nei giorni greci, o pittoriche come ai tempi moderni; in una parola, la Vita è la migliore, l’unica alunna dell’Arte. Com’è per le arti visibili, così è per la letteratura. La forma più ovvia e volgare in cui questo si dimostra è nel caso dei ragazzi sciocchi che, dopo la lettura delle avventure di Jack Sheppard o di Dick Turpin, scassinano i banchi delle malcapitate fruttivendole, irrompono nelle pasticcerie la notte, e impauriscono gli anziani che stanno tornando a casa dalla città sbucandogli addosso nei vicoli suburbani, con maschere nere e rivoltelle scariche. Questo interessante fenomeno, che si manifesta sempre dopo la pubblicazione di una nuova edizioni di ciascuno dei due libri cui ho alluso, è solitamente attribuito all’influenza della letteratura sull’immaginazione. Ma questo è un errore. L’immaginazione è essenzialmente creativa e cerca di continuo una nuova forma. Il ragazzo scassinatore è semplicemente il risultato inevitabile dell’istinto imitativo della vita. Egli è il Fatto, occupato come il Fatto è di solito, con il tentativo di riprodurre la Finzione, e ciò che vediamo in lui è ripetuto su scala allargata durante tutta la vita. Schopenhauer ha analizzato il pessimismo che caratterizza il pensiero moderno, ma Amleto lo ha inventato. Il mondo è diventato triste perché un burattino una volta fu malinconico. Il Nichilista, quello strano martire che non ha fede, che va al rogo senza entusiasmo e muore per ciò in cui crede, è un prodotto puramente letterario. Esso fu inventato da Turgenev e completato da Dostoevskij. Robespierre venne fuori dalle pagine di Rousseau come sicuramente il Palazzo del Popolo sorse dai detriti di un romanzo. La letteratura anticipa sempre la vita. Non la copia, ma la foggia per il suo proposito. Il diciannovesimo secolo, come lo conosciamo, è in gran parte un’invenzione di Balzac. I nostri Lucien de Rubempré, i nostri Rastignac,  e i De Marsay fecero la loro prima apparizione sul palcoscenico della Comédie Humaine. Noi stiamo soltanto eseguendo con note a piè di pagina e aggiunte superflue, il capriccio o la fantasia o la visione creativa di un grande romanziere. Una volta chiesi a una signora, che conosceva intimamente Tackeray, se egli avesse mai avuto qualche modello per Becky Sharp. Lei mi riferì che Becky era un’invenzione, ma che l’idea del personaggio era stata in parte suggerita da una governante che viveva nelle vicinanze di Kensington Square, ed era compagna di un’anziana signora egoista e ricca. Chiesi che fine avesse fatto la governante, e lei rispose che, assai stranamente, qualche anno dopo l’apparizione di Vanity Fair, era fuggita con il nipote della signore con cui viveva, e per un breve tempo fece un grande scalpore in società, proprio nello stile di Mrs. Rawdon Crawley e interamente secondo i metodi di Mrs. Rawdon Crawley. Per ultimo andò in rovina, scomparve sul Continente, e la si vedeva di rado a Monte Carlo e in altre località da gioco d’azzardo. Il nobile gentiluomo da cui lo stesso grande sentimento trasse il Colonnello Newcome morì pochi mesi dopo che The Newcomes aveva raggiunto la quarta edizione con la parola Adsum sulle sue labbra. Dopo poco che Mr. Stevenson pubblicò la sua curiosa storia psicologica di trasformazione, un mio amico, di nome Mr. Hyde, si trovava nella parte nord di Londra, e avendo premura di andare alla stazione prese quella che riteneva essere una scorciatoia, perse la strada e si trovò in un labirinto di viuzze losche e pericolose. Sentendosi molto nervoso iniziò a camminare a passo molto spedito, quando all’improvviso fuori da un archivolto sbucò un bambino andando a finire proprio addosso alle sue gambe. Il bambino cadde per terra, Mr. vi incespicò e lo calpestò. Ovviamente, essendosi spaventato e facendosi anche un po’ male, il bambino incominciò a urlare e in pochi secondi tutta la strada si riempì di gentaglia che si riversava dalle case come formiche. Lo circondarono e gli chiesero il suo nome. Lui erà lì lì per dirlo se non che improvvisamente si ricordò dell’episodio che dà l’incipit alla storia di Mr. Stevenson. Era talmente terrorizzato per aver realizzato nella propria persona quella scena terribile e ben scritta, e per aver fatto in modo accidentale, seppure realmente, ciò che il Mr. Hyde della finzione aveva fatto con l’intento voluto, che scappò via il più veloce possibile. Comunque fu inseguito da presso, e finalmente trovò rifugio in un ambulatorio medico, la porta del quale per caso era aperta, dove spiegò a un giovane assistente, che era lì per caso, esattamente cosa gli era accaduto. La folla fu indotta ad andarsene dopo che lui aveva sborsato un po’ di soldi, e non appena la strada fu libera se ne andò. Una volta uscito, il nome sulla targhetta d’ottone alla porta colpì la sua vista. Era “Jekyll”. Almeno avrebbe dovuto essere.

Qui l’imitazione, fin dove arrivò, fu naturalmente accidentale. Nel caso seguente l’imitazione fu consapevole. Nell’anno 1879, proprio dopo che avevo lasciato Oxford, incontrai a un ricevimento in casa di uno dei ministri degli Esteri una donna di una bellezza curiosissima ed esotica. Diventammo grandi amici e stavamo costantemente insieme. E tuttavia ciò che mi interessava in lei non era la sua bellezza, ma il suo carattere, la sua completa vaghezza di carattere. Non sembrava possedere alcuna personalità, ma semplicemente la possibilità di molte tipologie. Talvolta lei si sarebbe data del tutto all’arte, trasformando il suo salotto in uno studio, passando due o tre giorni la settimana nelle gallerie o nei musei. Poi avrebbe frequentato le corse dei cavalli, portando i vestiti più equestri, non parlando altro che di scommesse. Abbandonò la religione per il mesmerismo, il mesmerismo per la politica e la politica per le eccitazioni melodrammatiche della filantropia. Infatti, lei era una specie di Proteo e il fallimento in tutte le sue trasformazioni era uguale a quello del magnifico dio marino che fu catturato da Odisseo. Un giorno ebbe inizio un romanzo a puntate in una rivista francese. Allora io leggevo diversi romanzi, e ricordo bene lo choc che provai dalla sorpresa quando pervenni alla descrizione dell’eroina. Era così simile alla mia amica che le portai la rivista, e lei vi si riconobbe subito e sembrò affascinata dalla somiglianza. Dovrei dirti, a proposito, che la storia fu tradotta da qualche scrittore russo deceduto, così che l’autore non aveva preso il suo modello dalla mia amica. Beh, per farla breve, dopo pochi mesi io ero a Venezia, e trovando la rivista nella sala lettura dell’hotel la presi casualmente per vedere che ne era stato dell’eroina. Era una storia assai pietosa, giacché la ragazza era fuggita con un uomo assolutamente inferiore a lei, non solo per il ceto sociale, ma per il carattere e l’intelletto. Scrissi alla mia amica quella sera alcune mie opinioni su Giovanni Bellini, e sui meravigliosi gelati del Florian, e sul valore artistico delle gondole, ma aggiunsi un post scriptum con l’impressione che nella storia il suo doppio si era comportata in un modo molto stupido. Non so perché feci tale aggiunta, ma ricordo di aver avuto una sorta di terrore che lei potesse fare altrettanto. Prima della mia lettera, lei era scappata con un uomo che la abbandonò dopo sei mesi. La vidi nel 1884 a Parigi, dove viveva con sua madre, e le chiesi se la storia non avesse avuto niente a che fare con i suoi atti. Lei mi disse che aveva sentito un impulso assolutamente irresistibile a seguire l’eroina passo dopo passo nel suo strano e fatale incedere, e che era un sentimento di vero terrore quello con cui attendeva gli ultimi pochi capitoli del romanzo. Quando questi uscirono, le parve d’essere costretta a replicarli nella vita, e così fece. Era un esempio molto chiaro di questo istinto imitativo del quale parlavo, e un esempio estremamente tragico.

Comunque, non desidero soffermarmi oltre su esempi individuali. L’esperienza personale è un circolo assai vizioso e limitato. Tutto ciò che io desidero puntualizzare è il principio generale che la Vita imita l’Arte molto di più di di quanto l’Arte imiti la Vita, e sono certo che se tu pensi seriamente a questo troverai che è vero. La Vita regge lo specchio all’Arte e, o riproduce qualche strano tipo immaginato da un pittore o da uno scultore, o realizza di fatto ciò che era stato sognato nella finzione. Parlando scientificamente, la base della vita – l’energia della vita, come la chiamerebbe Aristotele – è semplicemente il desiderio di espressione e l’Arte presenta sempre varie forme attraverso le quali l’espressione può essere ottenuta. La Vita se ne impadronisce e le usa, perfino se vanno a suo danno. Dei giovani si sono suicidati perché lo fece Rolla, sono morti di propria mano perché di propria mano era morto Werther. Pensa a ciò che dobbiamo all’imitazione di Cristo, a ciò che dobbiamo all’imitazione di Cesare.

Cyril : La teoria è certamente molto curiosa, ma per essere completa devi mostrare che la Natura, non meno della Vita, è un’imitazione dell’Arte. Sei pronto a dimostrarlo?

Vivian : Mio caro amico, io sono pronto a dimostrare qualsiasi cosa.



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