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Oscar Wilde, “La sfinge senza segreti – Un’acquaforte”

Creato il 10 agosto 2012 da Marvigar4

Oscar_Wilde_portrait

Oscar Wilde

La sfinge senza segreti – Un’acquaforte

originale in inglese The Sphinx Without a Secret –  An etching 

traduzione di Marco Vignolo Gargini

   Ero seduto un pomeriggio fuori del Cafè de la Paix, osservando lo splendore e la miseria della vita parigina e davanti al mio vermut mi facevo domande sullo strano scenario di orgoglio e povertà che passava davanti a me, quando sentii qualcuno che mi chiamava per nome. Mi voltai e vidi Lord Murchinson. Non c’eravamo più incontrati da quando frequentavamo insieme l’università, quasi dieci anni fa, e allora mi fece molto piacere rivederlo e ci stringemmo la mano con calore. A Oxford eravamo stati molto amici. Lui mi piaceva moltissimo: era bello, spiritoso e leale. Di lui dicevamo che sarebbe stato il compagno ideale, se non avesse detto sempre la verità, ma credo che lo ammirassimo tanto di più proprio per la sua franchezza. Lo trovai piuttosto cambiato. Sembrava ansioso e perplesso, come se fosse stato assillato da qualche dubbio. Sentivo che non poteva trattarsi di moderno scetticismo perché Murchinson era il più convinto dei Tories e credeva con altrettanta fermezza sia nel Pentateuco che nella Camera dei Pari; quindi giunsi alla conclusione che si trattava di una donna e gli domandai se si era sposato.

   Mi rispose: “Io le donne non le capisco abbastanza”.

   “Mio caro Gerald”, dissi, “le donne sono state create per essere amate, non capite.”

   “Ma io non posso amare quando non ho fiducia”, replicò.

   “Credo che tu nasconda un mistero nella tua vita, Gerald”, esclamai. “Raccontami.”

   “Andiamo a farci un giro in carrozza”, rispose. “Qui c’è troppa gente. No, non quella gialla, una d’un altro colore … ecco, quella verde scuro può andare”. E in men che non si dica eravamo al trotto sul boulevard in direzione della Madeleine.

   “Dove andiamo?”, gli chiesi.

   “Oh, dove vuoi tu”, rispose, “al ristorante di Bois de Boulogne, ceneremo lì e tu mi racconterai tutto di te” .

   “Prima voglio sentire te”, dissi. “Dimmi il tuo mistero.”

   Lui tirò fuori dalla tasca un piccolo astuccio di marocchino col fermaglio d’argento e me lo porse. Lo aprii. Dentro c’era la fotografia d’una donna. Era alta e snella, e stranamente pittoresca con i suoi grandi occhi vaghi e i capelli sciolti. Sembrava una clairvoyante ed era avvolta da una pelliccia costosa.

   “Che ne dici di questo viso?”, disse, “è sincero?”

   Lo esaminai con attenzione. Mi sembrava il volto di qualcuno che aveva un segreto, ma non potevo dire se era un segreto buono o malvagio. La sua era una bellezza modellata da molti misteri – la bellezza che è infatti psicologica e non plastica – e il lieve sorriso che sfiorava appena le labbra era troppo sottile per essere veramente dolce.

   “Allora?”, esclamò con impazienza. “Che ne dici?”

   “È una Gioconda in zibellino”, risposi, “Fammi sapere tutto di lei.”

   “Non ora”, soggiunse. “Dopo cena”, e si mise a parlare di altre cose.

   Quando il cameriere portò il caffè e le sigarette, ricordai a Gerald la sua promessa. Si alzò, passeggiò due o tre volte avanti e indietro nella stanza e, lasciandosi cadere in una poltrona, mi raccontò la storia che segue.

   “Una sera verso le cinque stavo passeggiando per Bond Street. C’era una ressa terribile di carrozze e il traffico era quasi bloccato. Vicino al marciapiedi s’era fermato un piccolo coupé giallo che per qualche ragione la mia attenzione. Mentre vi passavo accanto si sporse dalla vettura il volto che ti ho mostrato poco fa. Mi affascinò immediatamente. Per tutta la notte non feci altro che pensare a lei, e così per tutto il giorno successivo. Girovagavo su e giù per quel maledetto Row sbirciando in tutte le carrozze e aspettando il coupé giallo, ma non riuscii a trovare la mia belle inconnue e alla fine mi convinsi che fosse soltanto un sogno. Circa una settimana ero cena in casa di Madame de Rastail. La cena era fissata alle otto, ma alle otto e mezzo eravamo ancora in attesa nel salotto. Finalmente il domestico aprì la grande porta e annunciò Lady Alroy. Era la donna che stavo cercando. Entrò molto lentamente e sembrava un raggio di luna in pizzo grigio, e, con mia grande gioia, mi fu chiesto di portarla a cena. Quando fummo seduti osservai innocentemente: “Credo di averla scorta qualche tempo fa in Bond Street, Lady Alroy”. Lei impallidì e sussurrò con un filo di voce: “Non parli tanto forte, la prego, possono sentirla!”. Mi sentii infelice per questo pessimo esordio e mi immersi precipitosamente nell’argomento delle commedie francesi. Lei parlò pochissimo, sempre con quella sua bassa voce musicale, e pareva avesse paura d’essere ascoltata da qualcuno. Mi innamorai appassionatamente e stupidamente, e l’indefinibile atmosfera di mistero che la circondava aveva eccitato la mia più ardente curiosità. Mentre stava per andar via, cosa che fece quasi subito dopo cena, le chiesi se potevo farle visita. Per un momento esitò, guardandosi intorno per vedere che non ci fosse nessuno accanto a noi, e infine disse: “Sì, domani alle cinque meno un quarto”. Pregai Madame de Rastail di parlarmi di lei, ma tutto ciò che riuscii a sapere fu che era vedova e con una bella casa in Park Lane, e quando un noioso uomo di scienza cominciò una dissertazione sulle vedove, sostenendo la tesi della sopravvivenza del legame matrimoniale più stretto, lasciai il salotto e me ne tornai a casa.

   Il giorno seguente arrivai a Park Lane puntuale come un orologio, ma il maggiordomo mi disse che Lady Alroy era uscita da poco. Andai allora al mio circolo molto infelice e perplesso. Dopo una lunga riflessione le scrissi una lettera chiedendole poterla rivederla in un altro pomeriggio. Per diversi giorni non ricevetti alcuna risposta, ma finalmente mi fu recapitato un biglietto in cui ella mi diceva che sarebbe rimasta a casa domenica alle quattro e con questo strano proscritto: “La prego, non mi scriva più qui. Glielo spiegherò quando la vedrò.” La domenica mi ricevette e fu davvero incantevole con me, ma al momento di accomiatarmi mi pregò, nel caso avessi voluto scriverle ancora, di indirizzare la mia lettera alla signora Knox presso la biblioteca Whittaker in Green Street. “Ci sono della ragioni”, mi disse, “per cui non posso ricevere posta in casa mia”.

   Nel corso della stagione la vidi molte volte, e l’alone di mistero non l’abbandonava mai. Talora pensavo che fosse sotto il dominio di qualcuno, ma appariva così inarrivabile che non potevo crederlo. Era davvero difficile per me trovare una spiegazione, perché era simile a certi strani cristalli che si vedono nei musei: ora sono limpidi, ora sono opachi. Andò a finire che decisi di chiederla in moglie: ero esasperato e stanco dalla costante segretezza che imponeva a ogni mia visita e alle poche lettere che le mandavo. Le scrissi presso la biblioteca chiedendole di incontrarla il lunedì seguente alle sei. Rispose di sì e io fui al settimo cielo. Ero infatuato, nonostante il mistero che la circondava, pensavo allora … a causa di quel mistero, sostengo oggi. No! Era proprio la donna che io amavo. Il mistero mi turbava, mi faceva impazzire. Perché mai il destino mi aveva posto sulla sua strada?”

   “E allora l’hai scoperto?”, gli chiesi.

   “Temo di sì”, mi rispose. “Giudica tu stesso.”

   Quando giunse quel lunedì, pranzai da mio zio e verso le quattro io mi trovavo in Marylebone Road. Come sai mio zio abita in Regent’s Park. Volevo raggiungere Piccadilly, e per abbreviare il percorso attraversai un mucchio di viuzze squallide. All’improvviso vidi davanti a me Lady Alroy, fittamente velata e che camminava veloce. Arrivata all’ultima casa della via, salì i gradini, aprì con una chiave la porta ed entrò. “Ecco il mistero”, dissi a me stesso e presi a esaminare la casa. Sembrava una modesta pensione. Sui gradini davanti al portoncino c’era un fazzolettino che le era caduto. Lo raccolsi e me lo misi in tasca. Poi cominciai a riflettere su che cosa fare. Giunsi alla conclusione che non avevo il diritto di spiarla e mi recai al circolo. Alle sei mi presentai a casa sua. Era sdraiata sul divano; vestiva un abito da pomeriggio di lamè d’argento chiuso da strani fermagli di pietra di luna. Fu gentilissima. “Come sono lieta di vederla!”, mi disse. “Non sono uscita in tutta la giornata.” La fissai stupefatto, levai il fazzolettino dalla tasca e glielo porsi. “Le è caduto questo pomeriggio in Cumnor Street”, dissi con molta calma. Ella mi guardò terrorizzata, ma non osò riprendere il fazzoletto. “Che cosa faceva in quel luogo?”, le chiesi. “Che diritto ha di interrogarmi?”, rispose. “Il diritto di un uomo che l’ama”, risposi. “Sono venuto a chiederle se vuol diventare mia moglie.” Lei nascose il volto tra le mani e scoppiò in lacrime. “Deve dirmi tutto”, continuai. Lady Alroy si alzò e guardandomi negli occhi disse: “Non ho niente da dirle, Lord Murchinson”… “Era andata a un appuntamento”, gridai “ecco il suo mistero!”. Impallidì mortalmente e rispose: “Non avevo alcun appuntamento!”. “Perché non mi dice la verità?”, esclamai. “Gliel’ho detta”, rispose. Ero impazzito, fuori di me; non ricordo le mie parole, ma le dissi cose terribili e finalmente mi precipitai fuori da quella casa. Il giorno seguente mi scrisse una lettera che rispedii senza aprirla e partii per una crociera in Norvegia insieme ad Alan Colville. Dopo un mese tornai, come prima cosa lessi sul Morning Post la notizia della morte di Lady Alroy. Aveva preso freddo all’opera ed era morta di polmonite cinque giorni dopo. Mi chiusi nel mio dolore e non volli vedere nessuno. L’avevo amata tanto, alla follia. Dio! Quanto l’avevo amata!”

   “Non sei tornato in quella strada, in quella casa?”, dissi.

   “Sì”, mi rispose.

   “Sono andato tempo fa in Cumnor Street. Non riuscivo a farne a meno: ero torturato dal dubbio. Suonai e mi aprì una donna dall’apparenza rispettabile. Le domandai se aveva qualche stanza da affittare. “Sì, signore”, rispose, “ce n’è una col salottino che credo sia libera. Non vedo la signora che l’aveva presa da più di tre mesi, la pigione è scaduta e quindi potrei darla a lei.”. “È questa la signora?”, le chiesi mostrandole la fotografia. “È proprio lei, sicuro!”, esclamò la donna. “Quando tornerà, signore?”… “La signora è morta”, dissi. “Spero non sia vero!”, ha detto la donna, “era stata la mia migliore inquilina. Mi pagava tre ghinee alla settimana solo per sedere nel salotto ogni tanto.” “Incontrava qualcuno?, le chiesi, ma la donna mi ha assicurato di no e che era veramente andata sempre sola e non s’era mai visto nessuno. Allora esclamai: “Che diavolo faceva qui dunque?”. “Sedeva semplicemente nel salotto, signore, leggeva dei libri e qualche volta prendeva una tazza di te”, rispose la donna. Non sapevo più che cosa dire, quindi le ho dato una sovrana e me ne sono venuto via. Adesso, che cosa pensi che significhi tutto ciò? Credi che quella donna abbia detto la verità?”

   “Sì. Lo credo.”

   “Allora perché mai Lady Alroy andava in quella casa?”

   “Caro Gerald”, risposi, “Lady Alroy era semplicemente una donna con la mania del mistero. Aveva preso in affitto quella stanza per il piacere di andarci tutta velata immaginando così di essere un’eroina. Aveva una passione per i segreti, ma era semplicemente una Sfinge senza segreti.”

   “Lo credi proprio?”

   “Ne sono certo”, risposi.

   Lord Murchinson trasse di nuovo l’astuccio di marocchino, lo aprì e fissò la fotografia. Alla fine disse: “Devo crederlo?”.



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