L'azione si svolge durante il pieno dell'assedio romano a Neapolis, e chi avrà seguito i miei post passati ricorderà che durante l'anno e mezzo di assedio si produsse un'eclissi totale di Luna.
Mi è piaciuto tentare di far rivivere da diversi punti di vista, mediante personaggi di diversa estrazione, la meraviglia di un simile spettacolo celeste.
[…]E con ciò chiudo il post. Se vi è piaciuto, continuate a seguirmi e commentate.
La calda ed afosa estate, resa ancora più intollerabile dal fragore, dai fumi e dai fuochi dell'assedio, cedette così il passo ad un autunno dorato, ed una speranza cominciò a radicare nel cuore dei Sanniti. Sembrava che essi fossero al corrente di qualcosa che sfuggiva ai loro alleati Neapolitani, o forse erano semplicemente esaltati dall'umore del loro meddíss che si faceva giorno dopo giorno inspiegabilmente più spavaldo, più sicuro di sé.
Era un comportamento che Charilaos trovava irritante: l'assedio si prolungava nel tempo e coloro che ne erano stati la causa sembravano trovare la cosa sempre più divertente... Venne il momento dei chiarimenti.
«Paccio», fu al termine di una riunione degli ufficiali che il polemón si indirizzò al meddíss, «sarebbe per tutti noi motivo di allegria poter condividere la tua, che da diverso tempo dimostri, mentre quest'assedio perdura indefinitamente. Hai qualche motivo personale per sentirti così, o è una cosa della quale puoi renderci partecipi?»
«In effetti», rispose il sannita con fare altezzoso, come chi illustra ad un ragazzo non al corrente dei fatti della vita alcunché di risaputo, «sembra che tutti continuiate a preoccuparvi oltremodo di un problema che si risolverà da solo: i Romani non manterranno l'assedio ancora a lungo».
«Che assurdità vai farfugliando?», lo rintuzzò seccato Charilaos. «Per quale motivo i Romani dovrebbero andarsene? Hanno il controllo delle mura, hanno il controllo delle vie per terra, ci hanno tagliati fuori tanto dal Safinim quanto da Taras via terra, hanno dimostrato di poter fare a pezzi le nostre mura con relativa semplicità, con l'inverno alle porte nessuno dei nostri alleati scenderà in campo, e tu vorresti convincermi che i Romani avrebbero qualche ragione per levare le tende?»
«La ragione, caro il mio polemón», spiegò saccentemente il sannita, «non è di natura logistica o militare, ma politica: l'inverno si avvicina ogni giorno, e con esso il termine del mandato di Quintus Publilius. Prima di quella data egli dovrà tornare a Roma, attendere all'elezione di un nuovo console, rassegnare il comando dell'esercito al suo successore, e poi bisognerà vedere quali intenzioni avrà quello! È uno scherzo che ai Romani può costar caro: se Tarantini o Safineis desiderano approfittare di quest'inverno, potremmo rendere impossibile a qualunque esercito tentare un altro assedio».
«Dimmi che ti stai comportando così per tranquillizzare i tuoi uomini», se prima Charilaos era seccato, ora guardava con compassione il suo alleato, come si guarda un perfetto idiota, «dimmi che non credi a quello che hai appena detto!»
«Per chi mi prendi?», il meddíss si ribellò, offeso. «Io non sono uno di quegli imbonitori come se ne vedono tanti qui a Neapolis, la mia parola è una, ed è ben noto quanto ti sto dicendo: i Romani sono costretti a fermare le ostilità durante l'inverno per motivi civili e religiosi!»
«E tu speri», Charilaos non si era mai dimostrato tanto intollerante nei confronti di Paccio, «che i Romani decidano di ritirare ventimila uomini tra qui e Capua, ventimila uomini che tengono in scacco tutto il Kampanon, perdendo il loro vantaggio tattico ed offrendoci l'opportunità di evitare che possano tornare ad averlo, perché l'inverno è alle porte? Adesso lo regalano il vino, a Parthenope?». Si prese il gusto di esplodere in una risata, accompagnato dai suoi ufficiali.
«Ascoltami bene, Paccio», disprezzava quel guerriero ignorante dal quale dipendeva così tanto il destino della sua polis, «non una parola di quanto mi hai detto esca da questa sala. Col tempo vedrai quanto sei in errore perseverando in questa tua assurda convinzione, ma ora c'è un altro aspetto della vicenda che mi preoccupa di più: immaginiamo anche solo per ipotesi che tu abbia torto, che i Romani decidessero di non ritirarsi... che accadrebbe all'umore dei tuoi uomini?»
Paccio avrebbe voluto fargliela ingoiare tutta, l'alterigia di quell'ampolloso buffone, ma sapeva che Charilaos aveva ragione: il buon umore dei suoi negli ultimi giorni era niente se comparato alla prostrazione che sarebbe seguita ad un mancato ritiro dei Romani. Decise comunque di non darla vinta al polemón: era troppo sicuro di sé.
«Allora possiamo per una volta giocarcela da buoni amici...», propose, ma aveva scelto male il modo e le parole.
«Giocare, certo...», Charilaos era vieppiù disgustato. «Facciamo così, giochiamoci la pelle dei tuoi uomini, io devo preoccuparmi dell'incolumità dei miei concittadini!»
L'episodio non ebbe ulteriori strascichi. Entrambi i comandanti avevano tutto l'interesse ad attendere che il tempo dimostrasse chi aveva ragione, ed il tempo fece il suo corso.
Era stata un'uggiosa giornata della metà di Gamelione, quando Helios, appena raggiunto il punto più basso del suo cammino nel cielo, accenna appena a risollevarsi, e Paccio era ormai costretto a riconsiderare la sua opinione: un anno civile romano era terminato, un altro era iniziato, e l'esercito assediante non accennava a levare le tende.
Con la sera, le nuvole fredde e cariche di pioggia furono stracciate da un insistente vento da occidente, lasciando qua e là intravedere un fondo di cielo coperto da veli gelidi. La luna piena era già sorta sul nuovo giorno ma il suo volto non riusciva a trapassare la coltre di nubi.
Fu solo verso la fine della quinta clessidra che la luce dell'astro perlaceo sbucò su Neapolis, e coloro che avevano atteso la sua comparsa, ciascuno per le sue ragioni, rimasero costernati: una macchia color del sangue copriva parte del disco lunare.
C'erano i contadini che aspettavano il plenilunio per regolare le loro attività, i pescatori che avrebbero approfittato volentieri di qualche notte dal mare più calmo per raccogliere quel poco pesce che la stagione permetteva, i sacerdoti presi dalla redazione dei loro calendari sacri, ma soprattutto c'erano le sentinelle sulle mura che avrebbero gradito una brillante luna piena che li aiutasse a scongiurare eventuali sortite del nemico. Per molti di questi ultimi, vedere la luna macchiata di sangue fu un presagio di pessimo auspicio. Campane e segnali d'allarme furono lanciati da più parti sulle mura. Nolani e Sanniti erano addirittura paralizzati dal terrore, Paccio più che mai convinto che quel segno fosse un presagio diretto espressamente a lui.
Nell'accampamento romano l'agitazione era anche maggiore: il volto ferito della luna colse il castrum proprio al cambio della guardia tra la prima e la seconda vigilia, portando ovunque dubbio e scompiglio. Lucio Quinzio si fiondò alla tenda del console, trovandolo già desto.
«Ecco», lo accolse Publilio con aria sarcastica, «è in questi momenti che preferirei scambiare il mio incarico con quello di Nymphios. Siamo una banda di incolti superstiziosi, noi Romani, e vorremmo avere la meglio su di un popolo che è tanto meglio di noi…»
«Console, se c'è qualcuno che può rischiarare le tenebre della nostra ignoranza, quello siete voi!», il tribuno aveva il suo modo, allusivo, di avanzare le sue proposte.
«So cosa stai suggerendo, Lucius», c'era rassegnazione, nelle parole del magistrato, «ma comincio ad essere timoroso, riguardo a queste cose, ed in ciò dimostro di non essere tanto meglio dei miei uomini.
«Ho trascorso tutta la mia vita senza vedere praticamente nessuno dei “prodigi” che tanti millantano e poi, all'improvviso, ne accadono due sotto i miei occhi, e di che portata! Ed io devo spiegarne il senso ad un esercito di novemila!»
«Non credete dunque che l'eclissi annunci la caduta di Neapolis?», Lucio stava usando ora un tono insinuante, che non piacque per niente al console.
«No, tribuno!», Ogni tanto il sottoposto andava giustamente ridimensionato. «Anzi, se devo credere a questo prodigio così come a quello del lupo, del gabbiano e dell'aquila, non posso credere a nessuno dei due. Quello, infatti, l'avevo inteso come una finale riappacificazione tra Roma e Neapolis a danno dei Samnites, mentre quest'eclissi sembra presagire un futuro assai grave per Neapolis».
«Per Neapolis, e perché non per la sola Parthenope, o per i Samnites?», interloquì l'altro. «Come traete i vostri auspici? Come scegliete chi o che cosa sono i destinatari dei vaticini?»
«E tu», rispose il console, «credi che basti essere posto a guida della res publica per godere di maggiore considerazione da parte degli Dei? Credi che essi dicano a me chiaramente ciò che nascondono gelosamente ai più dotti dei Greci? Non rispondere, la tua espressione noncurante tradisce il tuo pensiero: questo non è argomento che ti preoccupi minimamente, eppure dovrebbe, molto.
«Dovrebbe preoccuparti se i tuoi uomini temono più gli Dei che te, perché quando si dimostrasse una sola volta che non sei stato capace di interpretarne il volere, allora non ci sarà più un solo uomo che avrà fiducia in te, né che vorrà rispettare la tua autorità. Al contrario, la tua incapacità dimostrerebbe che sei caduto in disgrazia presso gli Dei, ed i nostri uomini, caro Lucius, temono essi assai più di quanto non temano me o te».
«Signore», il tribuno cercò un approccio pragmatico alla faccenda, «dovremo pur dir lor qualcosa. Consideri anche che la nostra permanenza qui oltre lo scadere dell'anno ha gettato diversi di loro nel dubbio e nello sconforto. Avrebbero preferito tornare a Roma per le feste».
«E tu no? Ed io?», il console sorrise amaramente. «Tutto sommato, se è così che la vedono, vuol dire che ci considerano ancora superiori a loro – po'racci! – e dobbiamo dar loro quel conforto che possiamo offrire. Sono brava gente, Lucius, e tu li hai addestrati bene.
«Ma ora vieni, usciamo», invitò il sottoposto, «andiamo ad annunciare che grandi notizie di pessimo auspicio per i nostri avversari stanno per giungere».
Eppure, anche il console aveva un'idea ben superiore della realtà al riguardo dei suoi avversari. Certo, Sanniti e Nolani erano preda di sacro terrore quella fredda notte d'inverno nella quale il celeste volto di Artemide, macchiato di sangue, stava scomparendo, ma anche tra i Greci non erano pochi coloro che temevano il senso del prodigio.
Gavio, Nymphios e Pelagíos stavano osservando con apprensione l'eclissi insieme a Charilaos, altri notabili della polis ed amici, Marius Porfirius tra quelli. Pelagíos, che aveva visitato tante scuole pitagoriche, aveva appreso a prevedere quella classe di fenomeni ed aveva anticipato all'amico che uno si sarebbe verificato a breve.
Quello non avrebbe perso l'occasione di assistere ad un evento del genere per niente al mondo, ed aveva commentato la cosa al padre. Nymphios accolse la notizia con preoccupazione. Non era l'evento in sé a destare i suoi timori, ma l'effetto che esso avrebbe avuto su di una popolazione assai più superstiziosa di quanto il console romano immaginasse. Mostrare a tutti che l'evento era perfettamente prevedibile e che esso non era opera di un volere superiore ed avverso gli era parso il miglior modo di fugare ogni influenza sull'umore dei soldati e dei cittadini. Le campane ed i segnali alla comparsa della Luna all'inizio della penombra giunsero moleste, ma non inattese.
«Credevo che la voce fosse stata data a tutti!», commentò sconfortato a Charilaos.
«Ed io avevo diffuso l'ordine assai chiaramente», commentò il polemón, «ma la catena di comando è lunga...»
«...e parla molte lingue!», aggiunse con una punta di malignità Marius Porfirius. «È facile, per voi Greci, dall'alto delle vostre scuole filosofiche, dire che questo è un evento meccanico e ripetitivo, ma non immaginate il trambusto che c'è ora nell'accampamento romano! Non credo che Nolani e Samnites siano meno turbati».
«Non hai del tutto torto», ammise Nymphios, «ma odo segnali d'allarme giungere anche dal porto, e lì sono posti a difesa solo i nostri opliti e peltasti. Ritengo che i precettori di Neapolis vadano rimproverati: non hanno fatto un buon lavoro ed in questo frangente non ci possiamo affidare ad un esercito di pavidi».
«Orsù», argomentò il romano, «come ti ho già detto, nel castrum c'è ora anche maggior sconcerto!»
«Ma se non sbaglio», ribatté il polemarca, «il console è preposto a leggere i segni del cielo e nelle bestie...»
«È così», ammise Marius.
«E cosa credi che avrà “visto” il buon Quintus», proseguì il magistrato, «se non qualcosa a nostro danno?»
«Certamente!», assentì il mercante. «Non vedo dunque cosa impedisca anche a voi di “vedere” un segno della fine dell'assedio in questo prodigio».
«La fiducia dei cittadini, ce lo impedisce», spiegò Nymphios. «E non vorrei essere nei panni di Quintus Publilius, in questo momento. Se il suo oracolo dovesse dimostrarsi fallace, le mura di Neapolis diventerebbero l'ultimo dei suoi problemi».
Tornarono a rivolgere la propria attenzione al fenomeno. La Luna si era alzata ulteriormente e nel cielo si aprivano squarci sempre più ampi. Anche la coltre velata più alta si stava dissipando al soffio teso dei venti da occidente.
«Pelagíos, mi pare che possa accadere ben altro al disco lunare, durante questi eventi», invitò Nymphios.
«Sì, polemarca, e mi chiedo se questa notte avremo la fortuna di assistere a qualcosa del genere».
«Di che si tratta?», la curiosità di un bouleta lì presente era stata solleticata al punto giusto.
«Alcune volte il disco lunare scompare del tutto», spiegò il tebano, «totalmente occultato dall'ombra di Gea, giacché l'allineamento con Helios è perfetto. A giudicare dalla posizione dell'ombra, credo che questa potrebbe essere una di quelle volte. Ed in effetti, guardate, comincia!»
La Luna era tutta color del sangue, in quel momento, quando una parte del suo lembo orientale cominciò a scomparire nel buio completo.
«È davvero uno spettacolo impressionante!», commentò il bouleta. «Non mi stupisce che tanti vogliano leggervi la volontà degli Dei».
«La cosa, infatti, non stupisce nessuno», argomentò Nymphios, «ma in questo momento osservano lo stesso fenomeno in Espería come in Ellade, in Égyptos e, forse, in Persia. A quale di questi luoghi è indirizzato il messaggio degli Dei?»
Tutti sentirono, forse per la prima volta nella loro esistenza, la piccolezza del loro essere. Non la fragilità che un guerriero come Pelagíos o Charilaos erano abituati a mettere in conto per sapere esattamente fino a che punto poter spingere i propri sforzi durante una battaglia, ma la minutezza, l'essere al pari di quelle formichine che vengono cancellate da un'impronta malaccorta.
«Osservando uno spettacolo del genere, mi sorprende che Anaxagóras venisse condannato per empietà», osservò un altro bouleta, «per aver affermato che Helios è più grande del Peloponneso. La dimensione del nostro essere è così infima, di fronte a tali meraviglie, che tutte le nostre costruzioni, e leggi, e potere, e ordine, sono nulla insieme a noi. Che diritto avremmo, dunque, di fermare coloro volessero ribellarsi a quest'ordine e ribaltarlo?»
«Il diritto del logos», rispose spavaldamente Gavio, per il quale l'amore alla conoscenza era tutto ciò che contava nell'esistenza, «il semplice fatto che noi possiamo ragionare su queste cose e comprenderle, per quanto minuti. È infatti grazie al logos che noi ci trasmettiamo conoscenza e la incrementiamo, in tal modo giungendo ad ordinare un mondo tanto più grande di noi.
«Esistono, invero, molti filosofi che sono stati tacciati di ateismo, e credo che molti di più lo siano senza render pubbliche le loro convinzioni, e credo che questo sia un errore naturale, un moto d'orgoglio del logos conscio di sé e delle proprie possibilità. La mia opinione al riguardo è che il logos sia però una scintilla divina, ed il solo possederla di ogni essere umano è prova certa dell'esistenza degli Dei. Sono in errore coloro che credono di usare il logos: è quello che li usa per giungere a nuove conoscenze, per crescere, per propagarsi, per raggiungere tutti gli uomini, e da lì comprendere persino i moti degli astri».
«Non mi avevi mai fatto partecipe di queste tue riflessioni!». Nymphios era compiaciuto e deliziato da quanto udito.
«Sono cose sulle quali ho ragionato recentemente, padre, ed i vostri impegni sono stati assai importanti negli ultimi mesi», rimandò il giovane.
Selene stava giungendo nel punto più alto del suo cammino quando l'ombra la coprì del tutto. Scomparve dal cielo, il freddo ed un attento silenzio avvolsero la compagnia.
«Ricomparirà?», chiese infine Marius.
«Certamente, tra un po'», rispose Pelagíos. «Forse è bene ripararsi un po' dal freddo e bere qualcosa per scaldarci».
«Mi pare un'eccellente idea!», commentò il romano. «E qualcuno di questi poderosi opliti potrebbe poi venire ad avvisarci se l'astro torna a mostrare il suo volto».
«Quando», lo corresse Pelagíos, «non se!»
Così fecero, ed il vino ed il fuoco rinfrancarono un poco le loro membra. Trascorsero così una clessidra e mezza, chiacchierando di vari argomenti, ora in gruppetti, ora tutti insieme, a seconda di come il discorso li menava da una cosa all'altra.
«A proposito», Gavio aveva approfittato di un momento in cui lui e Pelagíos erano rimasti in disparte, «quella nel cielo non è l'unica Selene ad essersi eclissata. È un po' che non dici niente della tua amica, e tra poco Gamelione sarà trascorso, se posso chiederti».
«Certo che puoi chiedere», l'amico sorrise, «non ho misteri per te. Gamelión sarà trascorso e non l'avrò ancora sposata, ma è normale: hai dimenticato che presso i Saunitis è la primavera la stagione dei matrimoni?»
«Quindi hai deciso di sposarti alla maniera del suo popolo?», il giovane era un po' dubbioso.
«In realtà, credo che sarà un po' di entrambe le tradizioni. Anzi, visto che hai introdotto l'argomento, approfitto per chiederti una cosa. Voglio comunque un thyroros ed avevo pensato a te. Accetteresti l'incarico?»
«Certamente!», esclamò Gavio abbracciando l'amico, sopraffatto dalla delizia.
In quel momento, un soldato entrò e si diresse verso Nymphios: la luce di Selene ricominciava a splendere rossa.
[…]
Il prossimo estratto l'ho riservato per il mese prossimo, e sarà qualcosa di realmente spettacolare: faremo la conoscenza di Parthenope!