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Joachim Trier, regista dal cognome indubbiamente pesante, accende fin da subito i riflettori sull’elemento cardine della sua opera: il logos. L’ottimo incipit, costituito da una carrellata di immagini in Super 8, raccoglie come una Babele metropolitana i ricordi dei cittadini di Oslo fino a che questa raffica di parole viene ammutolita dal crollo di un palazzo. È un campanello d’allarme: nonostante il piacere mnestico che si struttura nell’attualizzare il passato la strada intrapresa non può che essere autodistruttiva, compassata certo, ma senza possibilità di ritorno: quella pietra nel fiume attenderà ancora per poco.
Trattandosi di una pellicola incentrata su un ragazzo con problemi già visti ma comunque sia sempre meritevoli di essere riproposti, l’idea pre-visione contemplava un approccio enfatizzante colmo di sottolineature per acutizzare la cifra drammatica. Invece no. La manovra di Trier è coraggiosa e degna di essere vista; l’obiettivo, centrato quasi in toto, è quello di esplicitare il profondo disagio di Anders nelle insenature dei dialoghi, fra gli intercapedini delle Parole, sputate, sospirate, anche non dette, magari acciuffate dal muto campo-controcampo. È quindi una rappresentazione placida di un sisma personale, un continuo passaggio per quadri contraddistinti da un progressivo e diverso rapportarsi con l’Altro mentre lo sfondo, Oslo, prosegue il suo incessante cogitare (l’esemplare sequenza all’interno del bar); è necessario stare attenti a ciò che viene detto per poter stanare un malessere che dietro facciate insospettabili (il vecchio amico ora marito e padre) continua a covare una brace oltremodo incandescente.
Il flusso verbale, non proprio incoraggiante per chi propende di più per la saturazione dell’occhio che dell’orecchio, è un adatto fonendoscopio per auscultare ciò che sta sotto l’esteso vatuttobene sociale. È cinema avvolto da una patina congelante che trattiene quell’auspicato magnetismo fruitivo, la stiticità è però solo nello sguardo di chi non coglie nella narrazione discorsiva l’incedere di un epilogo, una fine anticipata da un fuoco fatuo come può essere la più fugace delle avventure notturne, abilmente sconfessata dal montaggio del prologo (la stessa piscina, ma d’inverno), che nella sua concretizzazione lascia da parte perfino quel logos che fino a quel momento aveva costituito il fondamento di tutto: gli ultimi ricordi (esattamente quella finestra, quel poggiolo, quel bar, quella panchina, quel fiume) non hanno bisogno di commenti, resta l’immagine spoglia e silenziosa. Dopo è solo una schermata nera.
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