Ospreys, radiografia di un successo “proletario”

Creato il 04 giugno 2012 da Ilgrillotalpa @IlGrillotalpa

Antonio Liviero e la sua rubrica “Mischia aperta” su Il Gazzettino

Il volo trionfale degli Ospreys in Pro12 è di quelli tosti. Non è dovuto solo alla stanchezza di un Leinster satollo dopo il trionfo in Heineken Cup. La vittoria dei gallesi viene da lontano.
Nasce dalle ceneri della squadra galattica che ha fatto da prototipo alla nazionale gallese
e che ha conquistato la Celtic League nel 2005, nel 2007 e nel 2010. Quel gruppo si era imborghesito: troppe star sempre più difficili da gestire sia in termini economici che di comportamento. Così durante l’estate, sulle orme di Henson, sono stati lasciati partire i vari Phillips, Hook, Byrne, Collins e Holah. Un vuoto tecnico enorme. Anche perchè la Coppa del Mondo teneva lontani i giocatori più importanti e non era scontato che i giovani fossero pronti a voltare pagina rispetto al rugby fashion delle ultime stagioni. La franchigia ha stabilito allora un paio di regole che hanno fatto discutere e persino sorridere. La prima: vietate le abbronzature artificiali (lampade o creme che siano). La seconda: per poter calzare gli scarpini colorati, ultima frontiera trendy degli sponsor, bisogna aver giocato 50 partite ufficiali con gli Ospreys o in alternativa 12 col Galles. Insomma, guerra aperta al divismo, specie quello precoce.
A novembre è toccato all’allenatore degli avanti Jonathan Humphreys, ex capitano dei
Dragoni rossi, motivare i provvedimenti richiamando la squadra ai valori della working
class. «Vogliamo tornare alla nostra cultura – ha tuonato in un discorso che resterà memorabile -. Questa terra è rappresentata dai metalmeccanici non dagli impiegati di banca. I nostri tifosi non sono elegantoni, non si tingono i capelli né frequentano i centri di bellezza. Vogliamo essere in sintonia con loro. I giocatori guadagnano più degli operai, ma i valori sono gli stessi». (…)
Meno spettacolo e più grinta. Infatti coraggio, determinazione e freddezza hanno reso possibile la rimonta nella finale di Dublino, ripetendo con la squadra operaia l’impresa che due anni prima era riuscita col “dream team”. La mischia ha fatto venir meno una delle piattaforme offensive preferite del Leinster, il combattimento e la pressione in zona di placcaggio hanno fatto il resto ben gestiti da Webb e Biggar, coppia di mediani al di
sopra della media. D’accordo, ci sono state le due mete di Shane Williams, all’ultima partita
con i “falchi”. Ma anche le sue marcature stavolta sono sembrate più di lotta che di
finezza. E poi con la barba plebea che si è lasciato crescere ha dimostrato di aver preso alla lettera il discorso sulle creme autoabbronzanti e le meches. (…)


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