La regia teatrale, consapevole o meno, è sempre esistita: l’hanno praticata gli autori stessi, gli scenografi di corte, gli impresari e gli attori più esperti. Esemplari, le disposizioni date da Amleto, occasionale impresario, agli attori di giro giunti ad Elsinore e ai quali il principe danese chiede di rappresentare una scena di repertorio speculare al delitto commesso da Claudio. Lo stesso Shakespeare, come Moliere, era anche attore ed aveva ben chiaro il lavoro attoriale. Quello che è mancato fino all’inizio del novecento è stata una figura a cui fosse riconosciuta la responsabilità di coordinare tutti gli elementi della rappresentazione teatrale e di amalgamarli secondo la propria personale visione poetica: in poche parole è mancato il regista. Nell’ottocento, nella Parigi del Grand-opera, comparvero i libretti scenici, veri e propri piani di regia; un librettista di grido come Felice Romani, autore per i più importanti operisti dell’epoca (Donizetti, Rossini, Bellini, Mercadante e il primo Verdi), non si limitava nelle didascalie a dare indicazioni ambientali, ma anche sulle azioni da compiere e sul modo di porgere la poesia del canto; successivamente, furono i più importanti compositori, Verdi e Wagner, a fornire indicazioni sempre più dettagliate sui modi per una rappresentazione ottimale.
Fu solo con i grandi innovatori della scena (Appia, Reinhardt e Craig) e del lavoro sull’attore (Compagnia dei Meininger, Antoine, Stanislavskij, Mejerchol’d, Vachtangov, Artaud, Piscator e Brecht) che la figura del regista iniziò a delinearsi autonomamente. Questa rivoluzione, svoltasi tra gli ultimi decenni dell’ottocento e i primi del novecento, portò il regista non solo al riconoscimento come elemento fondamentale dell’allestimento scenico, ma ad esserne considerato il vero autore. Nel teatro in genere, si può parlare tranquillamente di una vera e propria tirannia del regista, almeno dal secondo dopoguerra in poi. L’Opera, tradizionalmente conservatrice, recepì le nuove idee solo dagli anni ’50, quando Wieland Wagner, nipote del maestro, riprese le idee sviluppate da Adolphe Appia nel suo saggio La messa in scena del dramma wagneriano del 1894 e rinnovò profondamente gli allestimenti del Festival di Bayreuth. In Italia, nel 1954, Luchino Visconti, già affermato regista cinematografico, debuttava all’Opera con La Vestale di Spontini, inaugurando una carriera parallela parimenti fortunata e dando un contributo essenziale per l’affermazione del regista d’Opera. La figura del regista divenne rapidamente imprescindibile per ogni produzione dei Teatri d’Opera, spesso e volentieri con strascichi polemici dovuti all’eccessiva personalizzazione della rappresentazione.
La regia operistica deve avere di base, oltre alle competenze sceniche e attoriali, una conoscenza della musica non necessariamente tecnica, ma comunque approfondita. Il regista si può muovere in tre direzioni: la ricostruzione, l’astrazione e la trasposizione. Con la ricostruzione, il regista si fa interprete dei voleri degli autori e ripropone l’opera nella originaria ambientazione, secondo le loro indicazioni e la tradizione. I melodrammi storici o comunque storicamente connotati sono quelli che, per tradizione, richiederebbero una messa in scena di rigorosa ricostruzione. Ma se non si stravolge la stimmung dell’Opera, anch’essi possono aprirsi all’astrazione e alla trasposizione. L’astrazione sintetizza gli elementi portanti dell’Opera e li ripropone scenicamente in chiave mitica e simbolica. Le opere di ambientazione mitologica, così come quelle in cui emergono con maggior chiarezza i valori universali, sono quelle che si prestano meglio alla riproposizione astratta. La trasposizione, ovvero la riproposizione dell’Opera con un’ambientazione storica differente dall’originaria, è sicuramente quella che da maggior adito a polemiche, in quanto spesso fatta sulla base di congetture arbitrarie ed eccessivamente soggettive del regista. Per essere credibile, la trasposizione non deve essere pretestuosa, ma deve partire da una comunanza empatica tra l’ambientazione originaria e quella trasposta. Queste tre tipologie di messa in scena possono comunque ibridarsi tra loro, ad esempio con una ricostruzione che nei momenti topici si apra all’astrazione o ai riferimenti trasposti.
In conclusione, non è tanto il tipo di riproposizione a rendere un allestimento credibile o meno, ma la pertinenza e la giustificazione che il regista può dimostrare per le sue scelte sceniche. Una ricostruzione che si voglia fedele all’originale può comunque incorrere in pacchianerie e anacronismi che la rendano involontariamente comica; viceversa, una trasposizione che rispetta il significato profondo dell’Opera (ad esempio, il Nabucco rivisitato in chiave Shoah) può rafforzarne il valore, evidenziandone l’attualità. Tutto sta nelle mani del regista che deve avere buon gusto e senso della misura, con la coscienza della specificità attoriale dei cantanti e delle prerogative sceniche dell’Opera, oltrechè del fatto che, a differenza del teatro di parola, nella lirica le sue ambizioni autoriali sono limitate dalla compresenza del direttore d’orchestra, dei cantanti e dallo specifico ben strutturato del materiale lasciato in eredità dai compositori e dai librettisti.