Il 25 novembre non è la giornata contro il femminicidio, bensì la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. C’è differenza. Innanzitutto la violenza sulle donne è (ahimè) un concetto molto ampio che comprende una lunga casistica di abusi fisici, psicologici, economici, normativi, sociali e religiosi che impediscono alla donna di esercitare appieno i diritti umani di libertà, integrità fisica e morale. Se ci fermassimo all’omicidio, tutto il resto finirebbe giusto per fare volume, quasi a suggerire tra le righe che gli altri fatti “non sono poi così gravi” come si vorrebbe far credere.
In secondo luogo la stessa parola “femminicidio” sembra poco pregnante in termini di significatività. A parte che qui si parla delle donne usando la parola “femmina”, più adatto agli animali che alle persone, il vulnus sta nel fatto che mentre l’espressione “violenza sulle donne” detiene in sé soggetto, oggetto ed esecuzione, nel neologismo “femminicidio” non è presente né chi esercita la violenza né perché. Creando un vuoto semantico spesso colmato da luoghi comuni e pericolose semplificazioni.
Le parole servono a descrivere la realtà, ma talvolta la creano (o distorcono) pure. Perché confermano immaginari, consolidano visioni, cambiano la portata dei fatti finanche a smentirli. Qualche volta, poi, assorbono il disvalore dei comportamenti che invece sarebbero chiamate a biasimare, aprendo così la strada ad un ambiguo processo di giustificazione.
E’ vero che l’attenzione del lettore medio di giornali (specie peraltro in via d’estinzione: siamo il Paese occidentale che legge meno quotidiani in rapporto alla popolazione) non va oltre la seconda o terza riga, e di certo un’espressione diretta come “delitto passionale” fa presa molto di più rispetto ad una complessa disamina storica, psicologica e sociologica sull’argomento. Ma chi, come i giornalisti, ha la responsabilità dell’uso delle parole dovrebbe fare molta attenzione all’uso che ne fa. Invece la stampa ci dimostra ogni giorno quanto sia facile passare dalla cronaca nera alla normalizzazione della violenza che inquina i rapporti tra uomini/presunti cacciatori e donne/inevitabili prede.
Delitto passionale, violenza familiare, dramma della gelosia, raptus di follia. Tutte espressioni con cui sovente gli organi di stampa riassumono i casi di donne morte per mano di uomini. E tutte fuorvianti, per non dire ipocrite e assolutorie. Non soltanto perché esemplificano la realtà di fatti deprivandola del suo significato, ma perché si focalizzano sui sentimenti, sulle frustrazioni, sulla vita dell’uomo che ha compiuto violenza anziché sulla sofferenza patita dalla donna vittima. Così la comunicazione viene deviata in un racconto del fatto dal punto di vista del carnefice, il quale diventa paradossalmente “più umano” e quindi vittima a sua volta. Come dire che allora l’omicidio di una donna è “meno grave” rispetto ad un altro avvenuto per rapina o per mafia in virtù del suo contenuto “sentimentale”. Del resto, in Italia il delitto d’onore era previsto dal codice penale ancora nel 1981, e a trent’anni di distanza i suoi echi sono ancora udibili nel sottobosco della società.
Così, per rimediare all’equivoco del femminicidio sminuito in delitto passionale, si alza la voce sul tema elevandolo ad emergenza sociale. Niente di più errato. In Italia le statistiche e i dati ufficiali mostrano che l’omicidio di donne da parte di partner o conoscenti non è diventata “un’epidemia” e in realtà non è nemmeno in aumento. Si uccidono meno donne nel Belpaese che nel resto d’Europa e agli altri paesi sviluppati. Il vero problema è un altro.
Quando si parla di “femminicidio” deve essere chiaro che non ci si limita ad indicare semplicemente l’omicidio di una donna, ma l’omicidio di una donna per il fatto di essere donna. La motivazione di genere come causa profonda della violenza. E qui si apre un altro scenario, perché ci obbliga a lasciare il caso singolo per allargare lo sguardo sulla condizione della donna in generale. Passando così dalla comodità del facile giustizialismo contro il “mostro” di turno alla necessità di riflettere sul modello educativo su cui la società stessa si basa.
Oggi consideriamo normale che vestire i maschietti d’azzurro e le femminucce di rosa, di regalare agli uni le automobiline e alle altre le bambole. In realtà si tratta solo di un paradigma culturale, che non è neanche universale. In altre parole, fin dalla più tenera età sono le scelte e i comportamenti dei genitori a forgiare la differenziazione di genere nei figli, talvolta fino ad esasperarla. E’ forse un caso che i Paesi dove la distinzione di genere viene rimarcata fin da piccoli (come in India, a causa del rigido sistema delle caste) sono proprio quelli dove le donne sono meno rispettate?
Troppo spesso trascuriamo di ricordarci che la distinzione di genere è il fondamento stesso della democrazia. Il contatto con l’altro sesso, non fosse altro che con con la propria madre, è il primo incontro di un soggetto con un essere distinto, con l’altro da sé. Il primo e fondamentale esempio di coesistenza degli opposti. Qui si gioca tutta la sua futura concezione del diverso e il suo grado di tolleranza nei confronti dello stesso. In genere gli uomini che non rispettano le donne, non rispettano neppure le altre forme di diversità: tendono cioè a discriminare anche omosessuali, stranieri e adepti di altre religioni. Questo basta a spiegare perché l’educazione al rispetto di genere debba essere una priorità in una società che si reputa civile. Già, che si reputa. Senza il rispetto per le donne la democrazia resta incompiuta. Ma può dirsi “civile” quella società che insegna alle donne a difendersi dagli uomini anziché insegnare agli uomini a non fare del male alle donne?
La violenza sulle donne è una colpa di tutti, non soltanto di chi la commette. Perché è in primo luogo la condizione delle donne d’oggi ad esserlo. Negli anni Settanta una nota psicologa americana diceva che le bambine sono allenate “alla” dipendenza e i bambini ad uscire dalla dipendenza, e a quattro decadi da allora lo schema non sembra cambiato. Se il punto di partenza è questo, non stupiamoci che il raggiungimento delle pari opportunità sia tuttora un miraggio.
* Post originariamente comparso su Val Vibrata Deal